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    1 maggio: la Festa del lavoro, anche quando c’è poco da festeggiare

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    Primo maggio, per antonomasia la Festa del lavoro. Nella realtà concreta, una giornata – l’ennesima – connotata da impieghi onerosi ma sottopagati, salari bassi e spesso insufficienti per una vita dignitosa, contratti precari, sbocchi professionali che tali effettivamente non sono. In poche parole, condizioni ormai stagnanti che, associate al sostantivo ‘festa’, suggeriscono quanto poco vi sia da gioire. 

    Lavorare per avere dignità

    Se dovessimo provare a definire le tre tematiche maggiormente dibattute dalla partitica nazionale, il mercato del lavoro rientrerebbe certamente in questa scaletta, seguito dalla salute e dal sistema pensionistico. Ma non è solo una questione di retorica politica: il lavoro non è uno slogan, uno di quei tanti termini ombrello in cui l’eterogeneità dei fenomeni considerati allenta sempre più l’ancoraggio alla realtà. Si tratta di una componente imprescindibile non solo per la nostra Repubblica, che su di esso è stata fondata, ma anche per l’animo umano, che soltanto per mezzo del lavoro può racimolare dignità

    Di qui l’importanza della ricorrenza odierna. Ricorrenza che, tra le varie cose, ricorda anche quanto sia complesso esemplificare il lavoro in senso stretto così come le sue evoluzioni, dati i mutamenti repentini cui siamo sottoposti. 

    Il lavoro tradotto in numeri

    I dati rilevati dall’ISTAT a febbraio 2025 tracciano un quadro altalenante, in cui anche i più flebili spiragli di luce vengono sopiti dalle ombre e dalle negatività. Questo perché l’aumento dell’occupazione – pari allo 0,2%, dunque +47mila unità – vale per le donne, i dipendenti a termine e gli autonomi, ma non per la fascia d’età compresa tra i 25 e i 34 anni. Calano le persone in cerca di lavoro (-4,9%), ma crescono gli inattivi, il cui tasso si attesta al 32,9%. Benché la disoccupazione sia scesa al 5,9%, quella giovanile – volendo giocare per eccesso – è rimasta comunque orientata verso la seconda decina, affibbiandosi un non molto gratificante 16,9%. 

    Il lavoro povero

    La realtà che segue la conosciamo tutti – chi per esperienza diretta, chi anche solo per sentito dire – ma vale comunque la pena riportarla, affinché nessuno possa mai professarsi all’oscuro. In molti casi, avere un lavoro non significa affatto vivere una vita dignitosa: a certificarlo è Eurostat, secondo cui in Italia sale il rischio di povertà tra le persone che lavorano anche se impegnate a tempo pieno. Basti pensare che nel 2024 gli occupati con un reddito inferiore al 60% di quello mediano nazionale al netto dei trasferimenti sociali sono il 9%, una percentuale quasi tripla rispetto a quella registrata in Germania, ove ci si attesta al 3,7%. 

    A decretare questi dati, almeno due fattori di rilevanza sociale: il livello di istruzione, che se non particolarmente elevato può riscrivere al ribasso la carriera lavorativa del singolo, e il cosiddetto salario minimo, frequente al di là delle Alpi ma non entro i confini nazionali, sebbene le opposizioni siano da tempo impegnate a favore della sua istituzione. 

    Lavori “sommersi”

    Questo per quanto riguarda chi, seppur tra le molte difficoltà, gode di un impiego per lo più “canonico”. Ma limitarsi a questi ultimi punti sarebbe sbagliato e ingiusto, perché esiste anche chi esercita a tutti gli effetti una professione che non viene riconosciuta alla pari di una disciplinata per mezzo di un albo professionale. Diversi i comparti che, a titolo esemplificativo, potrebbero essere presi in considerazione, primo fra tutti il digitale

    Le nuove generazioni

    Discorso analogo, in termini di scarsa riconoscenza, per le nuove generazioni, che al temine di un percorso scolastico o universitario – tutt’al più in mancanza di supporti economici o familiari – intraprendono spesso percorsi diametralmente opposti agli studi compiuti pur di mettere insieme il pranzo con la cena. Non va meglio per chi riesce ad avviare un tirocinio retribuito: ciò che dovrebbe rappresentare l’inizio della carriera, in vari casi non è seguito da ulteriori passi, complice la brevità dei contratti e la frequente mancanza di feedback e formazione in itinere.

    Le morti sul lavoro

    E se queste sono le premesse, il prosieguo di questa carrellata non può che peggiorare. Di lavoro e sul lavoro si continua a morire, incessantemente. Una vita spezzata, l’incremento delle cifre correlate, qualche parola di cordoglio – spesa in maniera bipartisan – per sanare gli animi, e infine un lento ma indifferente ritorno alla quotidianità, bypassando la questione centrale, l’incremento della sicurezza sul lavoro

    Forse è stata proprio questa amara ma condivisa consapevolezza, sepolta nei meandri delle coscienze comuni almeno fino all’avvento di una nuova vittima da piangere, che nella giornata di ieri ha spinto l’esecutivo a pronunciarsi in merito allo stanziamento di ulteriori fondi da destinare al lavoro in sicurezza

    Oggi, nella Festa del lavoro, siamo ancora distanti dal poterci definire fieri del nostro mercato del lavoro. Dunque, la speranza è che le dinamiche di cui sopra possano definitivamente cambiare volto, affinché il lavoro sicuro e dignitoso sia un diritto per tutti, e non un privilegio per pochi. 

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