Squid Game è una delle serie più viste nella storia di Netflix. Invece di essere puro intrattenimento, ci ricorda che in democrazia nessuno può essere tanto ricco da comprare un altro, e nessuno tanto povero da poter essere comprato. Altrimenti, che senso ha la democrazia stessa?
Per la redazione di quest’articolo sono stati utilizzati gli scritti di Caitlyn Clark – in inglese e tradotti in italiano – e Teresa Monaco e l’intervista a Hwang Dong-hyuk di Valentina Ariete, rispettivamente correlati alla prima e alla seconda serie. Infine, la frase sulla democrazia di cui sopra appartiene a Jean-Jacques Rousseau. Attenzione: articolo con spoiler!
Sotto la pelle del K-power
I grattacieli di Seul, i cellulari Samsung, il confronto (ormai vinto, fino agli anni Ottanta in bilico) con il Nord, il K-pop, le luci delle metropoli: così si offre la Corea del Sud a noi europei; attiva, energica, delicata, giovane e intraprendente. Una terra di persone sicure di sé e fiduciose nel futuro. Una delle Tigri asiatiche ancora in auge.
Ecco, non ci abbiamo capito nulla. È la stessa sensazione – ma rivista al contrario – di quando stiamo passeggiando per le vie di un centro storico e un turista, tutto invidioso, ci dice quanto siamo fortunati a vivere in un Paese così ricco di monumenti, paesaggi, buon cibo; è questo l’istante in cui noi pensiamo che, sì, siamo fortunati, ma intanto preghiamo di ricevere in tempo dal padroncino di turno il misero stipendio (in nero) per pagare l’affitto di un monolocale, mentre per delle cure ci siamo rivolti a un medico amico-di-famiglia e al concorso siamo stati sorpassati dal figlio di.
Fortunati, ma relativamente. Bene, la scelta di rendere forte la Corea del Sud sul piano culturale-mediatico è un’operazione politica senz’altro riuscita, perciò si parla di K-power; eppure, per capire veramente la Corea e i suoi prodotti artistici, bisogna darle uno sguardo più realistico.
La realtà economico-sociale
Quasi la metà dei pensionati vive in povertà assoluta, nelle baraccopoli ai margini delle città. Il tasso di suicidi è altissimo, anche tra le fasce anziane. L’economia è trainata dai chaebol, conglomerati aziendali su base familiare che sono anche la causa di una disparità di reddito abnorme; il tasso di disoccupazione è alto, ancor più – arrivando al 22% – per i giovani.
Solo nel 2018 l’orario di lavoro quotidiano è stato abbassato ad un massimo di 10 ore al dì, ma fino a poco fa il monte ore ne prevedeva 13. Politicamente, la Corea del Sud è stata una dittatura militare appoggiata dagli USA fino a quarant’anni fa (e su questo consiglio il film A Taxi Driver), e ancora oggi dobbiamo fare i conti con un presidente che si crede onnipotente e prova a fare un colpo di Stato, fallito solo perché i parlamentari si sono barricati materialmente, mentre i militari provavano a estrarli dall’Aula. In un secondo momento, i sostenitori del presidente e le sue guardie hanno reso quasi impossibile alla polizia arrestarlo, nonostante il mandato della Procura di Seul per tradimento.
Se sei ricco, tranquillo, te la cavi. Nel 2021 il capo di Samsung, Lee Jae-yong, era stato messo in carcere per corruzione e appropriazione indebita, un affare da decine di miliardi di won. Nel giro di qualche mese, il governo sudcoreano è intervenuto mettendolo in libertà condizionata, perché la sua azienda è troppo importante per l’economia nazionale per permettersi anche solo l’applicazione del diritto.
Se sei povero, anche solo un medio impiegato, beh, in bocca al lupo! I debiti per gli studi universitari, per l’assistenza sanitaria e per semplicemente sopravvivere sono una normalità che in Europa nemmeno concepiamo, grazie a sistemi di protezione sociale accasciati ma ancora vivi. Allo stesso modo, non concepiamo adeguatamente Parasite, altro film di denuncia sudcoreano; universi per noi troppo distanti.
La leva obbligatoria, le pressioni per la carriera, la durezza del sistema universitario e la massa di persone che, alla fine dei giochi, si ritrova comunque a lavorare sotto stress mentre una ristretta classe di grandi proprietari industriali succhia le risorse e svilisce la giustizia: questa è la vita che si prospetta per la maggioranza dei giovani sudcoreani. E ai rifugiati nordcoreani non va meglio, anzi: sono ultimi degli ultimi, assieme agli immigrati dalla pelle scura, in quello che i giovani del Sud chiamano «inferno Joseon».
Vita e tentati miracoli di Gi-hun
Quindi, come esce fuori l’idea di Squid Game? Tutto nacque nella mente di Hwang Dong-hyuk, regista ma anche sceneggiatore della serie, nel lontano 2009, non per un’illuminazione improvvisa. Erano gli anni della Grande crisi, problematica che in un’economia profondamente diseguale come quella sudcoreana si fece sentire ancora più drammaticamente.
I conflitti sociali, tanto più forti nelle aziende, non trovarono uno sbocco legale per via della legislazione del lavoro sudcoreana, rigida e feroce, tant’è che, mentre usciva la serie, il capo della KCTU, il più grande sindacato del Paese, finiva pretestuosamente in carcere: era il tredicesimo di fila.Fu nel 2009 quando Hwang immaginò per la prima volta Gi-hun, il giocatore 456 di Squid Game. Scrive Clark: «Hwang Dong-hyuk ha affermato di aver modellato il personaggio di Gi-hun sugli organizzatori dello sciopero dello stabilimento Ssangyong Motors del 2009, che si è concluso con una sconfitta a seguito di continui attacchi da parte della polizia. Nei flashback, apprendiamo che dopo che Gi-hun e un gruppo di suoi colleghi sono stati licenziati, lui e i suoi compagni si sono barricati all’interno del magazzino della Dragon Motors. I crumiri hanno abbattuto le porte, picchiando i lavoratori in sciopero con i manganelli. I crumiri hanno bastonato a morte un collega di Gi-hun davanti ai suoi occhi. Mentre si svolge questa scena di violenta repressione del lavoro, Gi-hun perde la nascita di sua figlia».
Il personaggio
Il rapporto con la famiglia, il trauma in azienda, la disoccupazione, i debiti per le cure della madre: Gi-hun finisce nella ludopatia e poi per accettare lo Squid Game. Nella seconda stagione, sarà proprio la consapevolezza di aver risolto i problemi di denaro, grazie alla vincita finale nella prima, che lo porta a spendere cifre “fuori mercato” per trovare il Reclutatore; in un secondo momento, il senso di dignità umana e la sua consapevole esperienza da “sopravvissuto” lo porteranno alla decisione di ritornare nel “gioco”, stavolta per distruggerlo dall’interno.
La sua non è vendetta personale, bensì voglia di riscatto sociale, non solo del singolo. Lo conferma Hwang: «Non sta cercando di vendicarsi per i danni che ha subito. Ha un progetto più grande: vuole fermare le persone che hanno creato i giochi. Vuole interrompere quel sistema, che è una metafora del capitalismo. È da lì che arriva il suo desiderio di vendetta. Quindi bisogna guardare le sue azioni da una prospettiva diversa: non è una vendetta personale, ma un disegno molto più grande».
In questa immensa allegoria di un sistema socioeconomico, Gi-hun si trova ad affrontare con altre 455 persone – tutti in condizioni di necessità fuori dallo Squid Game – i “giochi”, una serie di competizioni in cui i vincitori sopravvivono e tornano nel dormitorio, mentre i perdenti di volta in volta vengono uccisi. Alla fine, l’unico che rimane vivo si prende tutto il montepremi – calato man mano in un enorme salvadanaio allegro al centro del tetto del dormitorio, a forma non casuale di maiale – ed esce dallo Squid Game.
Nella prima stagione, Gi-hun vince, nella seconda invece prima tenta di rendere accorti gli altri partecipanti; poi, con oltre metà dei “compagni di gioco” ancora convinti di continuare, opta con una piccola avanguardia di rivoltarsi in armi contro le guardie. In quest’ultima impresa fallisce, perché sabotato da (almeno) un infiltrato. Ma ci arriviamo con calma.
Le dinamiche di gioco
I giochi, nella costruzione mentale di Hwang, hanno un senso ben preciso: «Quando giochi da bambino vuoi solo divertirti. Grazie a questi giochi i piccoli possono imparare a collaborare, oppure a essere combattivi, imparare a vincere. Possono anche aiutare a guadagnare forza fisica. I giochi che mostriamo in Squid Game invece, a partire dalle regole, sono una metafora, un’allegoria di ciò che succede davvero in una società molto competitiva. Quelli che perdono la gara sono destinati alla povertà, alle malattie. I perdenti muoiono. Nella nostra storia raccontiamo più una violenza allegorica e spero che gli spettatori la percepiscano come una metafora».
Un eroe moderno, Gi-hun. Lo stesso che, probabilmente per esigenze commerciali più che di trama, alla fine della seconda stagione ha perso, rivoluzionario riconosciuto e proprio perciò sconfitto, tradito da chi credeva un compagno di lotta e che, invece, era il suo più grande perseguitatore.
Mentre Gi-hun ci ha sempre messo la faccia, le guardie e i loro “datori di lavori” lavorano solo con le maschere fisse in volto. Impassibili perché non più persone, come Gi-hun e tutti i giocatori, quanto invece automi umani con la rivoltella in tasca.
Solo il Reclutatore, tra tutti gli organizzatori dello Squid Game, ha un volto dall’inizio alla fine. D’altronde, sarà l’ultimo essere umano – patologicamente insensibile, come dimostra la sua fine, ma pur sempre umano – a lavorare col proprio volto prima di finire arruolato.
Capi, capetti e kapò
Le guardie non sono, tuttavia, i veri capi dello Squid Game. Nella seconda stagione diventa centrale il Capo delle guardie, che si infiltra per sabotare i piani di redenzione prima e rivolta poi di Gi-hun, nel modo più umanamente sporco possibile: diventando il suo più stretto alleato, prendendosi così qualche rischio ma gustandosi la vittoria finale contro l’ex compagno di lotta.
Nota linguistica, non skippate per favore: questo personaggio è spesso chiamato anche in Italia col nome inglese di Frontman. Con tutto il rispetto per i traduttori anglofoni, non stiamo parlando del cantante di una band o del portavoce di un partito. Questo personaggio è un ex poliziotto pronto e disposto a tutto, totalmente asservito alle logiche dello Squid Game e ormai insensibile ai dolori umani che, pur sotto ordini, volentieri non solo causa ma anche architetta. Perciò preferisco chiamarlo «Capo delle guardie», essendo quello il suo sporco lavoro, con un’espressione italiana che rende molto meglio anche la rozzezza del compito.
Nella seconda stagione scopriamo che persino le guardie hanno un passato traumatico: anche loro sono persone con lutti e necessità, anche loro vittime del capitalismo sudcoreano. Proprio questo passato le ha rese disposte ad eseguire qualsiasi ordine. Talvolta sono più feroci del loro Capo, organizzando a sua insaputa un traffico di organi da giocatori eliminati e non ancora morti.
A chi, dunque, si deve affidare la punta di questa piramide ros(s)a (di sangue)? Chi, al di sopra delle guardie, sopra i disperati che accettano i “giochi”, sopra al Capo e alla schiera di kapò, chi giova di questa enorme organizzazione da gladiatori nel Colosseo?
Il palco d’onore lo scopriamo nella prima stagione: sono i cosiddetti «VIP», facoltosi uomini d’affari annoiati, tutti bianchi occidentali che vivono nel lusso e da cabine di lusso; anch’essi dietro maschere, assistono allo Squid Game. I “giochi” sono finanziati da loro stessi per divertimento, rendere ricco l’ultimo disperato rimasto è il loro modo di intendere la meritocrazia. Non la creazione di una società cooperativa che si migliora, quanto invece la “vittoria” di uno solo a discapito di tutti gli altri.
Che poi, vittoria: rimarrà sempre il loro pupazzetto. Un pupazzetto arricchito, certo, per far credere che se-vuoi-puoi, che se ti impegni ce la fai, a prescindere dai costi sociali lasciati dietro. Non sono un tuo problema, loro! E se, come Gi-hun alla fine della prima stagione, hai dei ripensamenti etici, gli scagnozzi del VIP sono in allerta per rimetterti in riga.
Hwang ha negato che si tratti di agenti del caos. Al contrario, il loro ruolo sociale è sistematico. Per chi vede Squid Game come un fumetto di supereroi urbani, Hwang replica: «Non penso sia questo l’approccio giusto a Squid Game: quando ho creato i personaggi dei VIP li ho immaginati come le persone al livello più alto della società capitalista. Leader politici, persone che possiedono la maggior parte della ricchezza. Sono quelli che mantengono e controllano il sistema, che fanno la loro fortuna grazie al lavoro e alla sofferenza di quelli che sono ai livelli più bassi della piramide. Non dico che si divertano a guardare le persone soffrire, ma certamente non se ne preoccupano. Perché credono sinceramente di vivere in un mercato libero, in cui le persone sono pagate per il loro valore, non si sentono responsabili della loro sofferenza. Quindi sono molto diversi da un villain come Joker. Nella serie parliamo di ingiustizia sociale».
Al di là di questo articolo, le parole del regista sono abbastanza chiare, semplici ed esplicative; ogni altro commento risulta essere solo un accessorio superfluo.
La società capitalista
Ora, però, bisogna intendersi: in Squid Game non è che ci siano stranieri ricchi cattivi e poveri adorabili coreani. No, i “giochi” e l’organizzazione stessa rivelano che l’importante, nelle società capitaliste, non è la nazionalità, bensì il rango.
L’organizzatore al vertice dei “giochi”, il personaggio creatore dello Squid Game, è Oh Il-nam, un ormai anziano uomo dell’élite sudcoreana che troviamo nella prima stagione. Si finge partecipante, “gioca” come giocatore 001, gli piace immergersi nella disperazione dei poveri dall’alto del proprio privilegio. Essendo anziano e fisicamente debole, Gi-hun prova ad aiutarlo e, arrivato il momento per il finto giocatore di uscire dall’arena – fingendo un’uccisione per sconfitta, con la complicità delle guardie – Gi-hun lo tratta ancora come un vecchio saggio.
È quindi un grosso trauma per il giocatore 456, libero dopo la vittoria finale, scoprire chi in verità fosse questo anziano giocatore. Sul letto di morte, per raggiunta età, non per mano delle guardie, Il-nam gli rivela l’origine dello Squid Game. Il-nam era un ricco annoiato, con tante idee e tanta influenza: così creò un circolo di ultraricchi per intrattenerli con uno spesato comune.
L’anziano coreano, però, non è solo un intrattenitore: confessa a Gi-hun che lo Squid Game serviva, sì, a creare spettacolo per le élite, ma anche per dare un senso alla vita dei disperati che, così, avrebbero avuto un’occasione di riscatto. Gi-hun è schifato da queste parole, tant’è che Il-nam non comprende lo sdegno del suo giocatore pupillo, un irriconoscente.
Dopo la morte di Il-nam, il suo posto come “timoniere” dello Squid Game è preso dal Capo delle guardie, che entrerà anch’egli nel gioco, ma in tutt’altro contesto. Il suo compito è sabotare i piani di Gi-hun, come detto, e invalidare le votazioni dei giocatori. Queste ultime meritano il paragrafo finale di questo articolo.
In nome della democrazia!
Secondo le regole dello Squid Game, spiegate con serena chiarezza dalle guardie prima dell’inizio dei “giochi”, se i partecipanti vogliono possono votare per interrompere la competizione, in qualsiasi momento. Ecco installato un seggio elettorale con una scelta facile: rimanere o tornare a casa. L’organizzazione non si oppone.
Formalmente, è un contratto sociale perfetto e rispettoso. Anche la morte – l’«eliminazione dal gioco», nel linguaggio ufficiale, è una clausola contrattuale. Quindi, nonostante le spiegazioni di Gi-hun, nonostante l’evidente massacro ad ogni “gioco”, nonostante il rischio concreto della morte di persone care anch’esse nella competizione, perché nella seconda stagione il fronte del torniamocene-a-casa, capeggiato da Gi-hun con accanto il Capo da infiltrato, non riesce a spuntarla?
Da una parte, ci sono le motivazioni esplicite del fronte opposto: lì fuori, nella vita “reale”, ci aspetterebbero solo sofferenze ed oppressione; debiti, malattie, stress, sfruttamento, una vita magra e pesante. Qui, nello Squid Game, o muoriamo – e non è così male, se fuori qualche usuraio farà lo stesso,o ci attende comunque una vita di stenti – o sbanchiamo – e questo, per quanto improbabile, è eccellente; annulla i dubbi del cuore risolvendo i problemi di portafoglio!
Dall’altra parte, invece, ci sono le ragioni implicite. Queste non appartengono ai giocatori, troppo impegnati in una lotta all’ultimo sangue. Sono le ragioni del sistema socioeconomico di cui Squid Game è l’allegoria, quelle che hanno permesso l’esistenza stessa di una élite (che vince quasi sempre) e di una massa di dannati in competizione. Il caso Samsung e quello di Ssangyong Motors sono esplicativi di come questi meccanismi non siano per nulla frutto di fantasia. La democrazia è erosa dalla base, più che nella forma.
Per chiudere, si era detto in principio che in Italia, dal punto di vista della sicurezza sociale, siamo messi meglio rispetto alla Corea; ciò non significa, però, che possiamo stare tranquilli. Basti vedere il titolo del rapporto Oxfam del gennaio 2024: Disuguaglianza: il potere al servizio dei pochi.
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