Crisi della democrazia e invito all’astensionismo: un fenomeno di circostanza politica o legato ai problemi strutturali della nostra società?
La polemica sull’astensione
L’8 e il 9 giugno i cittadini saranno chiamati alle urne per cinque quesiti referendari su lavoro e cittadinanza. Nel bel mezzo della campagna referendaria per portare quanti più cittadini a votare, il presidente del Senato Ignazio La Russa ha dichiarato di voler “fare propaganda affinché la gente se ne stia a casa”, sposando così la linea del suo partito, Fratelli d’Italia, che negli stessi giorni ha divulgato note interne secondo cui il ‘non-voto’ dovrebbe essere “un modo per esprimere dissenso verso un’iniziativa considerata di parte”.
Anche il vicepremier Antonio Tajani ha definito l’astensione “una scelta politica” legata al giudizio sul merito del referendum, mentre il deputato leghista Igor Iezzi l’ha descritta come “il massimo dell’impegno”. La coalizione di centrodestra, dunque, punta a non raggiungere il quorum – condizione necessaria per la validità del referendum abrogativo – così da vanificare l’esito della consultazione.
L’appello all’astensione da parte delle alte cariche dello Stato ha suscitato reazioni nel centrosinistra e nella società civile. Il deputato Federico Fornaro ha parlato di “vulnus” istituzionale perché un presidente del Senato non dovrebbe scoraggiare il voto dei cittadini. Maurizio Landini, a nome della Cgil, ha bollato l’invito all’astensione come “assolutamente pericoloso e sbagliato”, definendo tale strategia di governo “un errore politico molto grave sul piano istituzionale”.
La partecipazione come fondamento della Repubblica
La Costituzione italiana afferma, all’articolo 48, che «il voto […] è dovere civico», un principio che riflette il patto fondativo della Repubblica, in cui ogni cittadino contribuisce al benessere del Paese partecipando attivamente alle scelte collettive. In tal senso, anche il Presidente della Repubblica Mattarella ha richiamato di recente questo valore, sostenendo che “il voto e la partecipazione politica sono l’essenza della nostra democrazia”.
Le dichiarazioni del Presidente del Senato Ignazio La Russa, ritenute “sia in aperto contrasto con l’articolo 48 della Costituzione che con l’articolo 98 del Testo Unico sull’elezione della Camera dei Deputati, che vieta di indurre gli elettori all’astensione”, hanno spinto Matteo Hallissey, Presidente dei Radicali Italiani, insieme al gruppo “Boicotterai”, a presentare un esposto in procura.
Pur rientrando nella litigation strategy – altrimenti detta “contenzioso strategico”, adottata storicamente dai Radicali per ottenere risultati politici nelle corti di giustizia – la vicenda giudiziaria ai danni di La Russa si concluderà probabilmente con un nulla di fatto: il testo unico per l’elezione della Camera dei deputati vieta di indurre gli elettori all’astensione solo tramite costrizioni o abuso di potere, mentre l’articolo 48 della Costituzione inquadra il diritto di voto non come un dovere giuridico, fatto che comporterebbe la nascita di obblighi, bensì come un dovere civico che, nella piena libertà di pensiero e di opinione contemplata dalla stessa Carta Costituente, è legittimo non esercitare senza essere poi sanzionati facendo anche campagna elettorale in tal senso.
Precedenti storici
Non mancano alcuni precedenti storici per quanto riguarda l’invito all’astensione. Nel referendum del 1991 sulla legge elettorale, il leader socialista Bettino Craxi aveva definito la consultazione “una truffa, inutile e incostituzionale”, invitando gli elettori a “andare al mare” anziché votare. In quell’occasione, l’affluenza comunque superò il 60% e il quesito venne approvato con schiacciante maggioranza; l’astensione indotta si rivelò controproducente. Più di recente, nel referendum sulle trivellazioni del 2016, Giorgio Napolitano commentò che “non andare a votare è un modo di esprimersi sull’inconsistenza dell’iniziativa referendaria”, una posizione ripresa anche da Matteo Renzi.
Problemi strutturali e nuove generazioni
È proprio quest’ultimo dato che dovrebbe far riflettere su come la crisi della democrazia non sia autoindotta dal leader politico di turno che invita gli italiani a non recarsi alle urne, ma da problemi strutturali ben più profondi su cui la classe dirigente dovrebbe intervenire. Al netto della partecipazione delle fasce più anziane della popolazione, per avere un quadro chiaro sul futuro del nostro Paese, serve concentrare il focus sulle nuove generazioni.
Secondo un sondaggio pubblicato dal Times “il 52% dei giovani britannici tra i 13 i 27 anni si dichiara favorevole a un governo autoritario”. “Meglio la peggiore delle democrazie della migliore di tutte le dittature”, diceva Sandro Pertini. Eppure, più della metà del campione selezionato sembra non pensarla così.
Nonostante si tratti di un questionario condotto nel Regno Unito, se lo si guarda con scrupolo, basta poco per rendersi conto che riguarda da vicino anche noi, perché ci racconta di un’intera generazione che sta perdendo fiducia nelle istituzioni democratiche, non per convinzione ma per delusione o, peggio ancora, perché non si dispongono i mezzi necessari per accedere liberamente a momenti di partecipazione democratica.
La condizione dei giovani in Italia
Oggi un giovane in Italia guadagna, in media, meno di 14.000 euro lordi all’anno. È una cifra che non consente di pensare a un progetto di vita, o quantomeno di avere l’indipendenza necessaria per prendere parte alle formazioni sociali richiamate dalla nostra Costituzione.
In passato, la situazione era diversa: negli anni ’70, un giovane entrava nel mondo del lavoro con un salario, al netto dell’inflazione, spesso molto più alto di quello attuale. La democrazia però ha bisogno di cittadini liberi per esistere, ma la libertà si costruisce sul reddito, sull’autonomia, sul tempo che si ha a disposizione per pensare, per formarsi e soprattutto per partecipare, in piena attuazione con i principi generali del nostro ordinamento.
Mancate soluzioni
Tutte le misure attuate dalla classe politica per rafforzare la partecipazione rischiano di divenire scorciatoie inutili. Senza giudicare il merito delle iniziative politiche – si pensi alla riforma del premierato o al tentativo di tornare all’elezione diretta dei Presidenti della provincia – molto spesso queste ultime non vanno alla radice del problema, ma dimostrano come si continui a pensare che la crisi della democrazia sia una questione di “ingegneria costituzionale” e di comunicazione politica circostanziale. Come se bastasse cambiare le regole del gioco per far tornare la voglia di giocare o come se, a fare la differenza nel concreto, possa essere l’invito al non-voto da parte di un esponente delle istituzioni, quando ciò che stiamo vivendo è solo la conseguenza di un problema strutturale di natura culturale ed economica.
Conclusioni
L’astensionismo non è un fenomeno nuovo nella storia politica del nostro Paese. Oggi come ieri, la sfida principale per la democrazia non risiede solo nell’implementazione di strategie comunicative a ridosso degli appuntamenti elettorali, ma riguarda la capacità di affrontare problemi più profondi.
La società civile deve spingere la classe politica a parlare di futuro tramite interventi concreti capaci di garantire una visione e il cambiamento sociale. In piena attuazione di quanto sancito nell’articolo 2 della Costituzione, che stabilisce il dovere di solidarietà politica, economica e sociale, serve prendersi cura di chi oggi non può nemmeno permettersi il lusso di salvare la democrazia.
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