Il 14 novembre, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di alcune disposizioni della legge n. 86/2024 (DDL Calderoli) sull’autonomia differenziata. Ha stabilito che le regioni possono ottenere ulteriori materie solo se motivate e specifiche, senza minare i principi di unità nazionale. Criticata la delega al Governo per definire i Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP), ribadendo il ruolo del Parlamento. Bocciate anche disposizioni che rischiavano di premiare le regioni inefficienti. Ora il Parlamento dovrà adeguarsi, mentre la Cassazione esaminerà il referendum abrogativo.
Le disposizioni illegittime
In attesa del deposito della sentenza e dell’entrata in vigore degli effetti che modificheranno il testo sopra indicato, la Consulta ha pubblicato il consueto comunicato, in cui riporta le proprie decisioni. La Corte ha sottolineato il ruolo fondamentale delle regioni e ha riconosciuto che esse possono ottenere ulteriori materie, ma queste devono riguardare specifiche funzioni legislative e amministrative, e devono essere motivate in modo puntuale, non con accenni generali come nel caso delle richieste del Veneto. Il trasferimento delle competenze deve rispettare i principi fondamentali dello Stato, come l’unità e l’indivisibilità della Repubblica, e deve garantire maggiore efficacia nell’erogazione dei servizi, con l’obiettivo di migliorare la qualità della vita dei cittadini.
In sostanza, le regioni non potranno più scegliere le materie ‘à la carte’, ma dovranno indicare le motivazioni e fare riferimento a modalità specifiche di attuazione per ciascuna materia.
La Corte Costituzionale ha espresso un giudizio critico sulla legge Calderoli riguardo alla definizione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP). I LEP sono gli standard minimi che lo Stato deve garantire a tutti i cittadini in termini di servizi essenziali come sanità, istruzione e assistenza sociale. La legge in questione delegava al Governo il potere di determinare i LEP senza fornire indicazioni precise, lasciando ampia discrezionalità. Inoltre, la legge prevedeva l’utilizzo di decreti del Presidente del Consiglio (DPCM), atti amministrativi usati per attuare leggi esistenti e regolamentare materie specifiche, per aggiornare i LEP, invece di seguire la procedura legislativa ordinaria. Questa scelta avrebbe fortemente limitato il ruolo del Parlamento nel definire servizi cruciali per i diritti dei cittadini, concentrando il potere decisionale nelle mani del Governo.
Nel 2021, la Consulta, con la sentenza 198/2021, aveva già stabilito che il Parlamento deve vedere rispettata la propria funzione di controllo sul Governo, e che i DPCM devono rispettare i principi di proporzionalità e necessità, principi che, nel caso dell’autonomia differenziata, non sussistono.
In sintesi, la Corte ha ribadito quanto affermato dall’art. 117, c. 2, lett. M della Costituzione, ovvero che spetta al Parlamento la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.
L’incostituzionalità di alcune disposizioni
La Corte ha poi dichiarato l’incostituzionalità della possibilità di modificare, con decreto interministeriale, le aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali, previste per finanziare le funzioni trasferite, in caso di scostamento tra il fabbisogno di spesa e l’andamento del gettito. Tale previsione rischiava di premiare le regioni meno efficienti: se una regione riceve risorse dallo Stato per svolgere determinate funzioni, ma non le gestisce in modo efficiente, potrebbe chiedere un aumento delle aliquote per coprire il proprio deficit. In questo modo, le regioni più virtuose, che utilizzano correttamente le risorse, verrebbero penalizzate. Inoltre, l’introduzione di modifiche alle aliquote con un semplice decreto interministeriale avrebbe reso il sistema troppo flessibile, rendendolo meno stabile e prevedibile, creando incertezze sia per le regioni che per lo Stato.
La Corte ha poi ribadito che non può essere facoltativo, come richiesto da Veneto e Lombardia, partecipare alla fiscalità generale, poiché esiste un vincolo che, se non rispettato, andrebbe a ledere principi inderogabili dell’ordinamento, come la solidarietà e l’unità della Repubblica. Se le regioni non fossero obbligate a contribuire agli obiettivi di finanza pubblica, si rischierebbe di indebolire il principio di solidarietà che dovrebbe legare le diverse componenti dello Stato. Le regioni più ricche potrebbero essere meno incentivate a sostenere quelle più povere. Un allentamento dei vincoli di solidarietà potrebbe mettere a rischio l’unità nazionale, favorendo un eccessivo regionalismo e creando disparità tra le diverse aree del Paese.
L’estensione della legge n. 86 del 2024 alle regioni a statuto speciale rappresenterebbe, inoltre, una violazione del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni, e creerebbe incoerenze nell’ambito delle autonomie, poiché disapplicherebbe, almeno in parte, le procedure specifiche previste dai loro statuti per l’acquisizione di maggiori competenze. Per questo motivo, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità di tale previsione.
La rilettura costituzionalmente orientata
La Consulta ha spiegato che il ruolo del Parlamento non è quello di una mera ratifica, come inteso da Gentiloni nel 2017, bensì il Parlamento ha il potere di emendare le leggi di differenziazione, cioè le intese.
Per le “materie no-LEP“, i trasferimenti di risorse non potranno finanziare servizi legati ai diritti civili e sociali. In altre parole, le regioni non potranno utilizzare questi fondi per garantire prestazioni come la sanità, l’istruzione o l’assistenza sociale.
È rilevante ciò che la Corte afferma in merito ai criteri di spesa, poiché l’individuazione delle risorse per le funzioni trasferite non si baserà sui dati storici di spesa, ma su criteri più oggettivi, come costi standard e fabbisogni stimati. Questo approccio dovrebbe garantire una distribuzione più equa ed efficiente delle risorse, evitando di premiare le regioni che hanno speso di più in passato, indipendentemente dalle reali necessità.
Inoltre, prima di definire i trasferimenti alle regioni, sarà necessario valutare la situazione complessiva della finanza pubblica, tenendo conto dell’andamento dell’economia e degli impegni assunti con l’Unione Europea. L’individuazione delle risorse per le funzioni trasferite dovrà essere effettuata in modo coerente con gli obiettivi di bilancio e con le priorità politiche del governo.
Cosa accadrà ora?
Il Parlamento dovrà recepire quanto affermato dalla Corte Costituzionale e colmare i vuoti legislativi. Nonostante le perplessità iniziali legate alle modifiche intervenute grazie alla Corte Costituzionale, sussiste un ragionevole ottimismo circa l’ammissibilità del referendum abrogativo. La Cassazione, nel suo ruolo di garante della corretta applicazione delle norme, è chiamata a valutare con estrema attenzione la questione, tenendo conto non solo delle modifiche legislative ma anche della volontà popolare che ha promosso l’iniziativa referendaria.
È possibile che la Corte, nell’interpretare la volontà dei cittadini, possa ritenere che l’oggetto del referendum sia ancora attuale e meritevole di essere sottoposto al voto popolare. In ultima analisi, sarà la Corte Costituzionale a pronunciarsi in via definitiva, garantendo così il rispetto della volontà popolare e la supremazia della Costituzione.