Superato il vaglio della Camera, il ddl Calderoli sull’autonomia differenziata diventa legge con 172 voti favorevoli, 99 contrari e 1 astenuto. Oasi in mezzo al deserto? No, la disputa tra regionalizzazione e statalizzazione ha radici profonde: occorre anzitutto risalire al 2001 per trovare la riforma del titolo V della Costituzione, in base a cui le Regioni possono chiedere allo Stato competenza esclusiva su 23 materie di politiche pubbliche. E’ la fine di un lungo processo, un cammino di circa 30 anni riconducibile alla Prima Repubblica e all’allora temibile – elettoralmente parlando – Lega Nord di Umberto Bossi, leader che auspicava dagli anni ’90 il federalismo, denunciando la cosiddetta “Roma ladrona”.
Una giornata memorabile, quella di mercoledì, destinata a scrivere la storia, come riportato dal Presidente leghista alla Camera dei deputati, l’On. Riccardo Molinari. Un principio di modernità, secondo il Presidente Meloni, per “costruire un’Italia più forte e più giusta”. Una terribile sconfitta per il Paese, secondo l’opposizione, per una volta compatta e pronta a manifestare in nome dello Stato Italiano: unico ed indivisibile.
Lungi dall’assumere parti ed etichette politiche, l’obiettivo è quello di sviscerare alcuni importanti aspetti di questa riforma, le cui conseguenze saranno tali da impattare drasticamente sulla vita degli Italiani. Ma, soprattutto, sulle nuove generazioni. Le stesse il cui mito trascende la realtà; fuor di metafora: quelle di cui tutti parlano, ma senza precisa cognizione di causa.
Entriamo nel dettaglio della normativa
Che cosa comporterà nel concreto l’autonomia differenziata? Le Regioni potranno chiedere l’autonomia relativamente al secondo gruppo di materie, citate in Costituzione, quelle per cui lo Stato stabilisce i principi generali, mentre le Regioni entrano nel merito del funzionamento. Stiamo parlando di ambiti come istruzione, ricerca scientifica, trasporti, tutela e sicurezza del lavoro. E poi ancora: produzione, trasporto e distribuzione dell’energia, valorizzazione dei beni culturali, salute, ambiente. Insomma, veri e propri pilastri del nostro ordine pubblico. Per far ciò, potranno trattenere parte delle imposte versate dai cittadini. Imposte che, dunque, non confluiranno nel bilancio nazionale. Nulla di cui preoccuparsi, secondo il Ministro Matteo Salvini: “chi è capace non ha nulla da temere dall’autonomia”.
Due nodi fondamentali sono però ancora da sciogliere: anzitutto, la definizione dei LEP – livelli essenziali, dunque minimi, delle prestazioni – che lo Stato deve poter garantire su tutto il territorio. In secondo luogo, la rendicontazione delle risorse effettivamente necessarie, nonché da mobilitare. Punti, questi ultimi, tutt’altro che periferici, considerando che da oltre 20 anni vari Governi stanno tentando, invano, di definire i LEP. Con molta probabilità, questa situazione si deve anche all’eccessiva burocrazia – relativa alle prestazioni e misurazioni – che una riforma come quella dell’autonomia vorrebbe limitare.
Tolti questi cavilli, per il cui chiarimento il Governo ha fissato un tempo massimo di due anni, ci si divide tra favorevoli e contrari: da un lato sta la riduzione degli sprechi, l’effetto positivo a cascata sull’intero territorio nazionale e la possibilità di responsabilizzarsi; dall’altro invece l’inasprimento delle disuguaglianze tra Nord e Sud. Quello che l’opposizione ha rinominato “spacca Italia”. C’è anche chi richiama tempi oramai desueti – vale a dire il 1994, anno in cui il PDS (l’odierno centro – sinistra) guidato da Achille Occhetto annoverava tra i punti del suo programma elettorale proprio l’autonomia differenziata – nella speranza di riattivare uno dei tanti evergreen della cronaca politica: lo scontro noi – loro, il cui unico esito è un sentimento di acceso disprezzo per la cosa pubblica. A tal proposito, chi scrive diffida da spiegazioni riduttive e semplicistiche, bensì adotta una visione decisamente più olistica, la stessa che molti giovani hanno fatto propria con fierezza: da qui la consapevolezza del tenere bene a mente i dati, bistrattati e portati sul carro del vincitore, raramente intesi per il ‘verso giusto’.
I giovani e l’Italia a due velocità
Partiamo dal Sud, vasto complesso territoriale la cui recente tenuta è stata saldata grazie ai fondi del PNRR. Nonostante i dati SVIMEZ – Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno – abbiano attestato che nel 2023 PIL ed occupazione siano qui cresciuti più della media nazionale, in realtà la situazione generale è tutt’altro che idilliaca. Lo Stato, infatti, deve spesso far fronte a fenomeni come criminalità organizzata, povertà assoluta, mancanza di infrastrutture e abbandono scolastico. Esistono persino zone in cui le istituzioni hanno ceduto completamente il passo alla malavita, lasciando i cittadini in preda alla disperazione e alla frustrazione. Sentimenti tali da porsi come aggravanti la profonda crisi che, da tempo, pare toccare soprattutto i più giovani.
Assumiamo, a mero titolo esemplificativo, il caso della Regione Calabria: il suo Presidente, Roberto Occhiuto, ha usato termini forti per commentare la suddetta legge: “temo che il centro – destra nazionale abbia commesso un errore, del quale presto si renderà conto.” Seguendo questa linea, l’errore di cui parla Occhiuto si tradurrebbe in una sola, triste, conseguenza: lo spopolamento delle zone meno servite della Regione, nonché di tutto il Meridione. Territorio le cui città, di anno in anno, occupano posizioni sempre più basse nelle classifiche circa la qualità della vita. Vita che, di certo, l’autonomia differenziata renderebbe ancora più instabile, in balia della più o meno accentuata lungimiranza della singola giunta regionale.
Stando alla situazione attuale, per i giovani calabresi è del tutto normale, per non dire necessario, trasferirsi al Nord o all’estero per studiare, lavorare, avere una famiglia. Ma banalmente anche prenotare una visita passando per mezzo del SSN – Servizio Sanitario Nazionale: gli ospedali calabresi, quei pochi rimasti dopo i tagli varati alla sanità negli ultimi dieci anni, sono al collasso, privi di personale sanitario e delle apposite apparecchiature. A “rianimarli” medici ed infermieri cubani, costretti a rimbalzare su più presidi ospedalieri, svolgendo turni anche di dodici ore. A denunciare la situazione è il Rapporto Gimbe.
Chi decide di restare vede davanti a sé un futuro che, per quanto incombente, pare irremovibile: disoccupazione, precariato, lavoro povero. E’ forse l’incertezza una delle sfaccettature della “modernità” auspicata dal ddl Calderoli?
Non va meglio sul fronte scuola e istruzione: secondo la classifica CENSIS, tornano a crescere le immatricolazioni alle università, ma del suddetto incremento non beneficiano tutti gli Atenei in eguale misura (Centro Italia +9,3%, Nord – Ovest +1,6%. Retrocessione per il Nord – Est, -2%, sostanziale stabilità per il Sud, – 0,2%). Segno positivo anche per il tasso di abbandono degli studi. Con poca sorpresa, i piccoli atenei statali del Sud (quelli che contano fino a 10.000 iscritti) risultano poco attrattivi, incapaci per mancanza di fondi di radicale rinnovamento. Continua poi, del tutto non curante della mancanza degli appositi spazi e strutture, l’ampliamento dell’offerta formativa. Processo, quest’ultimo, che con molta probabilità trova origine nel modello dell’università – azienda. Lo stesso che, corroborato a livello istituzionale, determina una vera e propria emergenza psicologica: in questo senso va menzionato che, tra il 2007 e il 2022, sono aumentati gli studenti universitari che affermano di sentirsi ‘depressi’ o ‘senza speranza’.
Come se non bastasse, le scuole pubbliche di ogni ordine e grado mostrano difficoltà nell’assolvere le rispettive funzioni: più che evidenti, infatti, le carenze culturali in materie come matematica, lingua italiana, storia e geografia. I risultati estrapolati dai test Invalsi 2023 mostrano un quadro agghiacciante: abilità basilari, come comprendere quel che si legge o fare calcoli, non sono state raggiunte da circa la metà degli studenti italiani. Da qui deriverebbe l’analfabetismo di ritorno, fenomeno molto allarmante non solo per la vita quotidiana, bensì per l’intera sopravvivenza democratica. Molti giovani smettono infatti di frequentare le aule ben prima dei 18 anni, senza conseguire alcun titolo di studio professionalizzante, e perdono via via anche le minime capacità di comprendere o elaborare un testo. Mancano figure di riferimento e insegnanti di sostegno. Ma, soprattutto, scarseggia la volontà di riportare al centro la persona. Riuscirà l’autonomia differenziata in questa ardua impresa?
Purtroppo non è tutto: per andare da Catanzaro – Lido a Reggio Calabria è necessario utilizzare un treno regionale su binari monorotaia. Fino a qualche mese fa dall’Aeroporto di Reggio Calabria partivano soltanto quattro voli al giorno (A/R Roma e Milano). L’unico modo per andare nelle città della costa Jonica, provenendo da Reggio Calabria, è percorrere la “statale della morte”, ovvero la SS 106 Jonica. Problemi, tutti questi, che rendono di fatto insostenibile il pendolarismo per motivi di studio e lavoro. E che, soprattutto, colpiscono anche altri territori, tra cui Basilicata e Molise. Regione, quest’ultima, cui spetta il record di anzianità dei convogli ferroviari (22,6 anni).
Lo stesso ragionamento vale se calato sul Centro Italia: muoversi con i mezzi pubblici a Roma – tra ritardi, scioperi e soppressioni – spesso equivale ad una giornata di passione. Panorama poco roseo anche nella Regione Marche, dove il diritto all’aborto è sempre più una chimera: quasi il 100% dei medici è infatti obiettore di coscienza.
Nel frattempo però, a Milano è stato recentemente inaugurato il primo tratto della M4 – la linea metropolitana, totalmente automatica, destinata a collegare l’aeroporto di Linate con il centro cittadino – ed è prevista persino la M6. Annunciato anche il nuovo hub dell’Università Milano – Bicocca, la cui inaugurazione è in programma per il 2025. Niente di così sorprendente, a pensarci bene: sono questi i volti dell’Italia a due velocità.
Il problema non è ‘Nord contro Sud’
La questione, però, non si riduce al comparto economico ed infrastrutturale: per molti giovani, crescere in una parte d’Italia piuttosto che in un’altra comporta chiusura e arretratezza, ma anche impossibilità di esprimere con pienezza la propria identità di genere. Insomma, fin dai primi anni di vita un destino già scritto. Ignorare tutto questo equivale a mettere la polvere sotto il tappeto, nella speranza che venga poi fuori nel momento più opportuno politicamente come atto di rivendicazione. Da qui una dinamica unidirezionale, a tratti persino paternalistica, in cui a soccombere è sempre il più debole. La cui influenza – sotto il profilo elettorale e demografico – è ridotta a nullità.
Quanto meno per onestà intellettuale, va inoltre detto che l’Italia intera non gode di buona salute. Tre milioni e mezzo di persone guadagnano meno di nove euro l’ora. Metà delle donne italiane non ha accesso ad un conto corrente. Abbiamo il tasso di occupazione femminile più basso d’Europa. Secondo Almalaurea, solo il 25,5% dei neolaureati ottiene un contratto a tempo indeterminato; all’estero la percentuale sale al 41,3%. Il rapporto Ocse ‘Society at a Glance 2024’ evoca il rischio di “gravi difficoltà economiche e sociali” sulle prossime generazioni.
Prospettive future
Varato il provvedimento, previo parere del Presidente della Repubblica e pubblicazione ufficiale in Gazzetta, palla al centro: lo scettro dell’azione e della concretezza passa interamente nella mani delle Regioni; queste ultime dovranno, nel bene o nel male, rispondere del proprio operato. Operato che dovrà, altresì, ascoltare le richieste dei territori e delle comunità. Ultimo, ma non per importanza, inevitabilmente tenere conto dell’inclusione invocata a gran voce dalle nuove generazioni.
Il futuro dell’autonomia differenziata corrisponde, metaforicamente, a un’equazione le cui cifre sono date da equilibri umani e politici. Motivo per cui, ad oggi, una qualsiasi ipotesi circa le sue conseguenze risulterebbe parziale e azzardata. Ciò che possiamo fare è considerare oltre l’attualità, anche il passato. E’ quest’ultimo a suggerire una certa ponderazione nel valutare l’implementazione di riforme e così come la necessità di rimarcare responsabilità prettamente personali, laddove presenti. In caso contrario, si andrà soltanto ad aggravare quella parabola di sfiducia e disaffezione da tempo dilagante.
Non si tratta soltanto di “carta”, assetti istituzionali e procedure burocratiche; è in gioco il futuro di un’intera generazione. Da qui alcuni interrogativi che meritano di essere considerati: come si porrà l’autonomia differenziata di fronte all’irrequietezza delle nuove generazioni? Riuscirà nell’impresa di rinnovare il Paese, restituendo dignità ai molti che dicono di averla persa? Infine, potrà mai fungere come deterrente all’emigrazione di massa?