“Il grado di civiltà di un paese si misura osservando la condizione delle sue carceri“. Le parole di Voltaire, oggi, suonano come una condanna senza appello della “civiltà” italiana.
I numeri del rapporto dell’Associazione Antigone lasciano pochi dubbi: negli ultimi anni quasi la metà dei decessi avvenuti in carcere sono suicidi (52 su 123). E quei 52 sono solo un piccola parte dei 1123 tentativi di suicidi avvenuti durante l’anno. Dopo il 2022, l’anno da record con 85 suicidi accertati, il 2023 e il 2024 continuano a registrare numeri impressionanti. Nel 2023 sono state almeno 701 le persone che si sono tolte la vita all’interno di un istituto di pena. Nei primi mesi del 2024, almeno 30. “Almeno” perché numerosi sono i decessi con cause ancora da accertare, tra i quali potrebbero quindi celarsi altri casi di suicido. Ancora più allarmante è il dato relativo all’anno corrente: tra inizio gennaio e metà aprile sono stati 30 i suicidi accertati. Uno ogni 3 giorni e mezzo. Nel 2022 – l’anno record – a metà aprile se ne contavano 20.
Del carcere non si parla, si ha paura e si tende con molta facilità ad ignorarlo. Invece, bisogna comprendere che, l’idea generale di esso come “luogo di contenimento di autori di reato, quindi, potenzialmente pericolosi perché predisposti alla delinquenza“, è sbagliata.
Carcerazione o privazione di diritti umani?
Nello specifico, basti pensare ai tassi di sovraffollamento, alle condizioni igienico – sanitarie scarsissime, nonché alla scarsa areazione dei luoghi chiusi: diritti che, per ogni persona detenuta, dovrebbero essere imprescindibili, preservando così facendo l’essenza della dignità umana. In Italia il tasso di sovraffollamento delle carceri è tra i più alti in Europa; a tale riguardo si è espressa negativamente la Corte Europea con la Sentenza Torregiani del 2013, la quale ha condannato il nostro Paese per la violazione dell’art 3 della Convenzione, ritenendo che le condizioni di vita dei detenuti integravano i requisiti necessari per la sottoposizione degli stessi a trattamenti inumani e degradanti.
La Corte pertanto “invitava l’Italia a risolvere il problema strutturale del sovraffollamento delle carceri, incompatibile con la Convenzione ”e – preso atto dell’alto tasso di sovraffollamento delle carceri, che rappresenta un “problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano” – esortava gli Stati che non fossero in grado di garantire a ciascun detenuto condizioni detentive conformi all’articolo 3 della Convenzione ad agire in modo da ridurre il numero di persone incarcerate. In particolare attraverso una maggiore applicazione di misure punitive non privative della libertà e tramite una riduzione al minimo del ricorso alla custodia cautelare in carcere.
L’insostenibilità delle condizioni in cui versavano i detenuti è stata cruciale durante la pandemia da Covid-19: periodo, quest’ultimo, in cui le decisioni prese – la sospensione dei colloqui nonché l’accesso a persone esterne, per mezzo delle quali i detenuti svolgevano attività ricreative – hanno contribuito ad un’ulteriore riduzione degli spazi, peggiorando di conseguenza la condizione di vita nelle carceri.
La carcerazione non può causare la privazione di diritti umani, motivo per cui le condizioni fisiche e psicologiche di ogni detenuto devono essere imprescindibilmente compatibili con il rispetto della dignità umana. Tali diritti dunque, soprattutto il diritto alla salute, dovrebbero essere sempre garantiti.
Articolo 27: la dignità umana e il divieto all’applicazione di pene disumane
Il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione Italiana afferma: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Nella realtà odierna, purtroppo, vi è molto spesso una mancata applicazione di questo principio ogni qualvolta non vengono garantiti i diritti essenziali come la salute, oppure negli innumerevoli casi di violenza fisica e psicologica perpetrati nei confronti dei carcerati.
Ma è davvero così che si vuole rieducare coloro che hanno commesso dei reati? Al contrario, ciò che è risultato aiutare molto nella rieducazione all’interno delle carceri sono le attività che promuovono il reinserimento graduale nella società, come ad esempio la possibilità di dedicarsi ad un percorso di studi: secondo l’associazione Antigone sono 796 gli studenti universitari in carcere, iscritti in 30 università. Percorsi, questi, che rivestono grande importanza per i detenuti, sia perché promuovono la loro integrazione in attività sociali, sia perché esse sono fonte d’ispirazione che permettono l’impiego costruttivo e diversificato delle giornate nel contesto carcerario. L’articolo 27 della Costituzione non lascia spazio a dubbi.
Eppure, le nostre carceri soffrono di problemi cronici come il sovraffollamento, un degrado strutturale, condizioni igienico – sanitarie precarie, mancanza pressoché totale di attività e di opportunità di lavoro e formazione, carenza di risorse e personale. Una situazione che negli ultimi anni è andata peggiorando, anche perché è aumentato il numero dei reclusi ma non quello dei posti disponibili.
I detenuti in Italia
Partiamo dai macro dati e vediamo come in Italia i detenuti, secondo la fonte del Ministero della Giustizia – al 31 gennaio 2024 – erano 60.637, mentre i posti a disposizione nelle nostre carceri solamente 51.347. Già questo dato fotografa una situazione di sovrabbondanza che va a totale discapito di chi ogni giorno deve vivere all’interno degli istituti di pena e delle case circondariali. Di questi 60.637 detenuti, gli stranieri sono poco più del 30% (18.985). Il dato aggiornato a gennaio 2024, come se non bastasse, è tra i più alti degli ultimi dieci anni. I condannati con sentenza passata in giudicato sono la maggioranza, precisamente 44.555, contro i 6.346 detenuti con sentenza non definitiva. L’ultimo dato sulla situazione carceraria italiana, aggiornato al 30 giugno 2024, dipinge un quadro allarmante circa il sovraffollamento nelle strutture penitenziarie del Paese: con una popolazione carceraria di 61.480 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 51.234 posti (posti ai quali, però, va sottratto un numero consistente di celle inagibili), il sistema penitenziario italiano si trova a gestire un eccesso di oltre 10.000 reclusi, pari a circa il 20% in più rispetto alla sua capacità effettiva.
Aldo Di Giacomo, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria, ha elaborato un dossier che fotografa una situazione critica che sta mettendo a dura prova detenuti e personale carcerario. Stando al report, nei primi sei mesi dell’anno le carceri italiane hanno registrato un numero senza precedenti di 51 suicidi tra i detenuti, con un’età media di soli 38 anni. Ma la disperazione non risparmia nemmeno chi dovrebbe garantire la sicurezza: cinque agenti di polizia penitenziaria hanno posto fine alla propria vita dall’inizio dell’anno; dato, quest’ultimo, che sottolinea come la crisi pervada tutti i livelli del sistema carcerario. A complicare ulteriormente il quadro vi è la carenza di organico della polizia penitenziaria che supera le 11.000 unità.
Di fronte a questi dati è evidente che il sistema carcerario italiano necessiti di interventi urgenti e strutturali. La situazione attuale non solo viola i diritti fondamentali dei detenuti, ma compromette anche la funzione rieducativa della pena. Funzione, vale la pena ricordarlo, pilastro del nostro sistema giuridico.
La funzione rieducativa della pena nel nostro ordinamento
“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso d’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Dalla lettura dell’art. 27 emergono due principi fondamentali, ossia il principio di umanità della pena secondo cui viene posto al legislatore il divieto di porre in essere pene le cui modalità siano lesive del rispetto della persona, ed il principio della finalità rieducativa della pena, secondo cui le pene non devono solo punire il reo ma mirare soprattutto alla sua rieducazione. Requisito fondamentale per il suo reinserimento nella società; non vi è pena che non debba seguire ad un intervento mirato alla rieducazione del condannato.
Fino al 1975 vigeva un sistema carcerario punitivo che vedeva nelle privazioni e nella sofferenza fisica gli strumenti per favorire il pentimento e la rieducazione del reo. La situazione è cambiata profondamente in seguito alla riforma penitenziaria avvenuta con la legge 354/75, definita “Legge di sistema”, la quale sostituisce definitivamente il regolamento fascista del 1931. In seguito alla riforma del 1975, uno dei pilastri portanti diventa l’introduzione del trattamento penitenziario ispirato ai principi d’umanità e dignità della persona, in attuazione della funzione rieducativa sancita nel terzo comma dell’art.27 della Costituzione.
Noi siamo abituati a pensare alla detenzione come alla pena assoluta: questo anche perché il carcere assicura il contenimento del condannato e conseguentemente rassicura la società circa la sua efficacia di impedimento – relativo, e comunque limitato alla sua durata – della commissione di nuovi reati. Ma di per sé, specie una volta sgomberato il campo dalle concezioni puramente retributive della pena, non è affatto detto che la privazione della libertà che si realizza con la carcerazione sia sempre la sanzione più adeguata rispetto alla finalità rieducativa. Non v’è dubbio che altri tipi di sanzioni – talvolta quelle pecuniarie, ma soprattutto sanzioni alternative quali l’obbligo di lavori socialmente utili o altre forme attenuate di limitazione della libertà (detenzione domiciliare, libertà vigilata e simili) – possono essere, oltre che più “giuste”, più efficaci della detenzione carceraria.
Solo assicurando concrete condizioni di dignità alle persone sottoposte all’esecuzione penale e rendendo non utopica la promessa di reinserimento sociale si riuscirà ad ottenere un avvicinamento alla funzione che la Costituzione assegna al diritto penale.