Sei giovane e intendi dedicare la tua vita alla tutela, alla conservazione e al restauro dei beni culturali? Con estremo rammarico ti comunichiamo quanto segue: i tuoi interessi molto difficilmente si tradurranno in una professione. Ironia della sorte, la patria di Dante, Boccaccio e Petrarca, la culla del Rinascimento, il territorio dai cento campanili è a sua insaputa il Paese con il patrimonio artistico – culturale più ricco al mondo.
La prontezza con cui nell’antica Roma si prevedeva la damnatio memoriae, quale condanna postuma inflitta a soggetti giudicati colpevoli di reati particolarmente gravi, è la stessa con cui oggi ci si dimentica del passato glorioso, sostituendo a quest’ultimo la vacuità della vita quotidiana. Sbadataggine o mancanza di specifiche competenze che sia, viene da chiedersi se il fantasma mitologico di Nerone – imperatore romano le cui generalità, benché ‘cancellate’, paiono valide per essere propinate agli studenti – si sia forse reincarnato in qualche sito archeologico, minacciando i tanti giovani in cerca di occupazione di bruciare anch’esso.
Il precariato fa male ai beni culturali
Archiviata la stagione estiva, la spensieratezza cede definitivamente il passo al disincanto e, parimenti, la pazienza degli italiani chiede il conto. Tra città messe a soqquadro dall’overtourism e lunghe code nei principali musei, che dire della maestosità storica di cui siamo legittimi ereditieri? Qual è il suo stato di salute? Non è forse questa la sede più indicata per redimere bilanci d’esercizio e constatare gli utili racimolati. Tuttavia, un dato è certo: il patrimonio artistico e culturale italiano non sempre viene adeguatamente promosso e valorizzato. Le potenzialità spendibili sul mercato per incrementare le cifre del turismo culturale sono inversamente proporzionali all’attenzione concessa a questo comparto nelle sedi del potere.
Ecco spiegato perché, esclusi i grandi centri visitati quotidianamente da milioni di turisti, sembra dominare una stato d’oblio per tutte quelle piccole realtà distanti dai flussi internazionali. Le stesse che non solo non vendono chissà quanti biglietti, ma che non godono neppure di copiosi investimenti in termini infrastrutturali e di capitale umano. Il motivo è presto detto: complice lo scarso appealing suscitato dalla cultura, la carenza di personale qualificato è cronica; i dipendenti con regolare contratto sono pochi, sottopagati, costretti a umiliazioni e a turni infiniti. A prevalere è l’incidenza del lavoro atipico, part-time e stagionale.
Quantomeno per onestà intellettuale va detto che i precedenti punti costituiscono soltanto la punta di un iceberg particolarmente fastidioso e invadente. Cosa se possibile ancora più intollerabile, coloro che dovrebbero erodere la suddetta superficie (ben poco) patinata si contano, in realtà, sulle dita di due mani. Ed è così che raramente si parla di un settore artistico – culturale subappaltato, fatto transitare da una società all’altra senza alcuna cognizione di causa, per di più con quella solerzia riconducibile ad una specifica pratica nota nel gergo nazional-popolare come ‘scaricabarile‘. Dal Ministero ai capi di Gabinetto, dalle Regioni alle malcapitate società investite della gestione, finanche ai sindacati di categoria. Questa la cornice in cui il collateralismo dilagante diviene il guinzaglio con cui tenere a bada il malcontento; non sia mai che lo status quo risulti clamorosamente minato. D’altronde, non meravigliamoci: questa è l’Italia, quella che “vive e lavora”, quella del lavoro “tanto, troppo, ma prezioso come l’oro”, ma anche quella in cui la scarsa efficienza (in pieno stile Checco Zalone) stride con l’attenzione certosina riposta nello svolgimento delle attività professionali, apicali tanto quanto ordinarie.
Un caso su tutti è destinato a fare scuola: la notte del 30 novembre 2022 ai dodici dipendenti della cooperativa impiegata nei tre siti statali della Val Camonica è stata recapitata l’email di una cooperativa – la Cosmopol di Avellino – subentrata alla precedente dopo aver vinto il bando d’appalto promulgato dalla direzione regionale dei musei lombardi, struttura del MiC. In quell’occasione, il messaggio è stato particolarmente asettico: antropologi e archeologici, professionisti con anni e anni di esperienza, sarebbero stati assunti dalla Cosmopol non appena avrebbero firmato il contratto nel parcheggio di un centro commerciale. Paga oraria prevista: 5 euro e 37 centesimi lordi; la base di cui si partiva con la precedente gestione era di 5,87€ l’ora. Come si può ben intuire, per vincere il bando, la cooperativa ha offerto un ribasso del 33%, accettato di buon grado dalla direzione regionale dei musei. Data l’indecenza della situazione, sono intervenuti i sindacati, la cui trattativa ha permesso uno scatto retributivo attestato a 6,25€. Nel frattempo, comunque, i siti sono rimasti chiusi. Questo perché, facendo affidamento esclusivamente sui funzionari dipendenti dal Ministero in servizio in Val Camonica, è impossibile prevedere l’apertura al pubblico. Insomma, siamo alle comiche: ci si accorge dell’essenzialità di dipendenti altamente qualificati solo dopo che questi hanno pestato i piedi in terra. Da tappabuchi ad attaccabrighe il passo è breve.
Povera cultura
Che lo Stato abbia smesso di investire nel settore culturale non è affatto cosa nuova; lo si ripete incessantemente dagli anni Novanta. A dispetto di quanto si possa immaginare, non è stata la pandemia a far patire le pene dell’inferno agli instancabili lavoratori. Lo sconforto attuale è frutto di decenni densi di concorsi bloccati, mancate assunzioni e pesanti tagli agli organi statali. Eppure, la nostra Costituzione all’articolo 9 recita così: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica. Tutela e valorizza il patrimonio artistico e culturale della nazione”. Il binomio società-cultura pare così scalfito nelle nostre esistenze. Vale la pena quindi indagare più a fondo lo stato di salute di questo intreccio più o meno virtuoso.
Anzitutto, va detto che esiste una distinzione fondamentale tra tutela e valorizzazione e dei beni culturali: la tutela è di competenza esclusiva dello Stato, che ha il compito di definire le norme e di emanare i provvedimenti amministrativi necessari per garantire la conservazione e la salvaguardia dei beni culturali. Qualsiasi iniziativa in questi campi, dunque, può essere realizzata soltanto previa concessione, convenzione o autorizzazione statale. La valorizzazione, invece, è un’attività svolta in maniera concorrente tra Stato e Regioni e prevede la partecipazione di soggetti anche privati: ha l’obiettivo di diffondere la conoscenza dei beni culturali, favorirne la fruizione pubblica e stimolare lo sviluppo socio-economico dei territori che li ospitano.
Tanti pretendenti e pochi fatti
In secondo luogo, il concetto stesso di bene culturale è mutato nel tempo. Oggi, esistono tantissime tipologie di beni culturali, suddivise in aree tipologiche omogenee: beni storici e artistici, archivistici, librari, archeologici, architettonici, paesaggistici. E poi ancora: beni etnoantropologici, fotografici e cinematografici, strumenti musicali, beni naturalistici e numismatici. Ad ambiti differenti, seguono quindi altrettanto differenti attività, competenze, professionalità, finanche specializzazioni curricolari. In effetti, sono molti i corsi attivi nelle Università atti a formare professionisti da impiegare nel settore storico – artistico – culturale. Si va dai corsi di laurea (triennali e magistrali) ai master (di primo e di secondo livello), si passa per mezzo delle Scuole di specializzazione e si arriva perfino al dottorato di ricerca, il più alto grado di formazione universitaria previsto in Italia.
Secondo i dati forniti da Almalaurea, esistono 5 corsi di laurea triennale (Beni culturali L-1; Diagnostica per i beni culturali L-43; DAMS – Discipline delle arti figurative, della musica, dello spettacolo e della moda L-3; Geografia L-6; Storia L-42) e 10 di laurea magistrale (Antropologia culturale ed etnologia LM-1; Archeologia LM-2; Archivistica e biblioteconomia LM-5; Musicologia e beni culturali LM-45; Scienze delle religioni LM-64; Scienze dello spettacolo e produzione multimediale LM-65; Scienze geografiche LM-80; Scienze per la conservazione dei beni culturali LM-11; Scienze storiche LM-84 e Storia dell’arte LM-89). Un solo corso, invece, è afferente alla laurea magistrale a ciclo unico (Conservazione e restauro dei beni culturali LMR/02). A seconda del percorso intrapreso, i laureati triennali e magistrali possono trovare impiego tanto nel pubblico quanto nel privato, rispettivamente in: Soprintendenze, archivi, biblioteche, musei, enti locali, fondazioni, centri e istituti di ricerca, senza tuttavia escludere l’editoria, i media e le organizzazioni turistiche. Tutto questo sulla carta.
Nella pratica, invece, il rapporto Almalaurea 2024 fotografa una situazione ben poco rosea: ad un anno dal conseguimento della laurea triennale, considerata l’imparzialità del titolo e la vastità culturale di cui sopra, il 73,8% dei laureati prosegue con la magistrale, mentre il 30,4% risulta occupato, con una retribuzione netta media di 928€. Va leggermente meglio ad un anno dal conseguimento della laurea magistrale: oltrepassato questo termine il 58,3% dei laureati lavora con una retribuzione netta media di 1.092€. Pensare di tentare una cavalcata simile a quella di Vittorio Sgarbi – laureato in Filosofia nel 1974, successivamente specializzato in Storia dell’arte e infine assunto nel 1977 presso la Soprintendenza ai beni storici e artistici, fino al raggiungimento dell’età pensionabile – è praticamente fantascienza.
Prospettive future
Veniamo ora alla parte più dolente: il lavoro. Chi intende sopravvivere nel magico mondo culturale deve faticare, e anche molto. Esattamente come la pratica sanitaria, anche quella di cui stiamo trattando è regolamentata da leggi non scritte, date ad intendere. Presupposto fondamentale è la capacità di assolvere egregiamente entrambi i versanti richiesti: non solo quello accademicamente detto ‘istituzionale’- la panoramica generale del patrimonio da tutelare – ma anche quello ‘monografico’, la specializzazione capillare per mezzo di cui mettere a terra tutte le proprie conoscenze. Superati questi scogli, è necessario un approfondimento continuo e incessante; chiunque pensi di abbandonare libri e saggi in cantina con buona probabilità non andrà mai da nessuna parte. D’altro canto, sono molti i limiti – materiali, economici, legislativi – che impediscono una svolta effettiva per i tanti giovani volenterosi di fare dell’arte e della storia la propria ragione di vita. Impossibile dire, ad oggi, come e quando lo scenario potrebbe evolvere. Per il momento, è possibile soltanto intravedere all’orizzonte un ulteriore passaggio di testimone: con l’entrata in vigore della legge sull’autonomia differenziata, la valorizzazione dei beni culturali costituisce una delle materie per cui è possibile richiedere l’autonomia da parte delle Regioni. Opportunità o sfida non sta a noi dirlo, ma di certo ci auguriamo non si concretizzi mai una quotidianità simile a quella presentata da Antonio Albanese nel film “Qualunquemente”: perdere di vista le radici archeologiche della Repubblica scambiando queste ultime per “pietre vecchie […] insommamente macerie”.
A cura di
Fiammetta Freggiaro (Vicedirettrice editoriale vicaria)