L’8 e 9 giugno tutti noi saremo chiamati a votare cinque referendum abrogativi potenzialmente decisivi per il futuro del Paese e delle generazioni a venire. Malgrado gli appelli all’astensionismo lanciati da buona parte della partitica nazionale, i quesiti referendari saranno comunque sottoposti all’attenzione dell’elettorato attivo, questo perché – ai sensi dell’articolo 75 della Costituzione – almeno 500.000 cittadini con diritto di voto hanno richiesto la loro indizione.
Dunque, se è vero che la politica deve farsi carico delle necessità della società, ignorare questa pressione esercitata dal basso significherebbe confermare lo scollamento tra istituzioni e singoli individui.
Il voto dei referendum
Se è vero che per commentare – scelte, azioni, comportamenti altrui – serve anzitutto conoscere, allora vale la pena indagare approfonditamente le basi del prossimo appuntamento elettorale. Cinque i quesiti referendari – quattro sul lavoro, uno sulla cittadinanza – cinque schede di colore differente, come suggeriscono i fac-simile elettorali diffusi dal ministero dell’interno, un quorum fissato al 50%+1 degli aventi diritto per la validità, nel pieno rispetto dell’articolo 75 Cost., comma 4. Ma quali sono esattamente le questioni pratiche e quotidiane che vengono interessate?
La cittadinanza
Anzitutto, le norme che definiscono l’ottenimento della cittadinanza italiana per gli stranieri extracomunitari maggiorenni. Attualmente sono dieci gli anni di residenza legale in Italia necessari per poter richiedere la cittadinanza, anche se in realtà – al di là dell’apparenza – il quantitativo da mettere in conto prima di godere degli oneri e degli onori che la cittadinanza porta con sé è molto spesso superiore, complici i vari avvalli burocratici da ottenere.
Dunque, l’obiettivo sotteso al referendum è diminuire gli anni necessari da dieci a cinque, andando così a modificare l’articolo 9 della legge 91/1992, e prevedendo altresì la possibilità di trasmissione della cittadinanza – una volta ottenuta – ai figli minorenni, ove presenti. D’altro canto, rimarrebbero invece intatti gli altri requisiti minimi – la conoscenza della lingua italiana, il possesso di un reddito stabile e l’assenza di procedimenti penali – per l’ottenimento della stessa. In caso di abrogazione, il referendum avrebbe effetti tangibili su almeno 2,3 milioni di persone, come riferito dall’On. Riccardo Magi, segretario di +Europa, tra i promotori del referendum.
Tra i punti critici potenzialmente spendibili a riguardo, il fatto che un qualsiasi numero – anteposto all’integrazione del singolo richiedente – risulterebbe vuoto e privo di significato. Servirebbe piuttosto riflettere su come associare il fattore spiccatamente culturale ad un progressivo snellimento dell’apparato burocratico previsto ogni qualvolta si richiede l’ottenimento della cittadinanza italiana. Fattore, quest’ultimo, che con buona probabilità permarrebbe anche in caso di vittoria del sì ai seggi.
I quesiti sul lavoro
Seguono poi altri quattro quesiti orientati al lavoro e alla sicurezza sul lavoro. Andando in ordine di numerazione, la questione dei licenziamenti illegittimi nelle imprese con più di 15 dipendenti. Al centro dell’attenzione c’è qui il Jobs Act, più nello specifico la disciplina sui licenziamenti del contratto a tutele crescenti, secondo cui per i dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015 nelle imprese di cui sopra, in caso di licenziamento illegittimo, è previsto un risarcimento tra le 6 e le 36 mensilità di stipendio – calcolato in base all’anzianità di servizio – ma non la reintegrazione nel posto di lavoro.
Se la norma in questione venisse abrogata, in aggiunta al risarcimento economico, sarebbe previsto anche il reintegro del dipendente nel lavoro.
Direttamente connessa al Jobs Act è anche la questione dei contratti di lavoro a tempo determinato: si tratta di un vincolo contrattuale che, allo stato, secondo i dati della CGIL, interessa circa 2.300.000 lavoratori. Ai sensi delle norme attuali, il contratto cosiddetto a termine può essere stipulato per una durata massima di dodici mesi senza avanzare alcun tipo di motivazione specifica. In caso di abrogazione, i datori di lavoro sarebbero obbligati ad indicare una causale, andando così a disincentivare – quantomeno in misura ideale – l’impiego dei contratti a tempo determinato e promuovendo, al contempo, l’eventuale conversione di quelli già in essere a tempo indeterminato.
Il limite per l’indennità per i licenziamenti nelle piccole imprese
In entrambi questi ultimi due casi, l’obiettivo è tutelare il singolo lavoratore, facendo valere maggiormente le coperture implicite nella stipulazione del contratto stesso. Discorso pressoché analogo anche per il limite dell’indennità prevista in caso di licenziamenti nelle piccole aziende, ossia quelle con meno di 16 dipendenti.
Al momento è previsto un tetto massimo per il risarcimento – pari a sei mensilità di stipendio – in caso di licenziamento illegittimo nelle aziende di piccole dimensioni, ma in caso di abrogazione il limite verrebbe meno, e al suo posto subentrerebbe la discrezionalità del giudice, che sarebbe così chiamato a decidere in merito all’eventuale indennità sulla base di una serie di criteri, tra cui la gravità della violazione, l’età, i carichi di famiglia e la capacità economica dell’azienda.
La responsabilità in caso di infortuni sul lavoro
Infine, la questione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali. In questo caso, l’obiettivo è estendere la responsabilità dell’imprenditore committente – al momento responsabile con l’appaltatore o o il sub-appaltatore per i danni subiti dai lavoratori che non hanno copertura assicurativa – in caso di infortunio sul lavoro. In caso di abrogazione, il raggio della responsabilità verrebbe così estesa andando a comprendere anche i danni causati dall’attività rischi specifici dell’attività dell’appaltatore o del sub-appaltatore.
Avanzate queste carte, spetta ora al cittadino esercitare il voto, tenendo bene a mente la vastità delle misure potenzialmente interessate.
20250195