Il Consiglio europeo di Bruxelles attualmente in corso si sta trasformando in un vero banco di prova per l’Unione, non solo sul piano delle decisioni operative, ma soprattutto in termini di coerenza politica e capacità di tenuta interna. Le grandi promesse sull’autonomia strategica, la volontà di ripensare le politiche migratorie e la tensione sempre più viscerale attorno alla guerra in Medio Oriente hanno dato forma a un vertice in cui l’UE ha mostrato il suo volto bifronte: ambizioso, ma spesso disunito. Le parole pronunciate e le linee politiche tracciate nelle ultime ore raccontano di un’Europa che vuole contare, ma che non riesce ancora a parlare con una voce sola.
Una difesa europea (quasi) reale
La difesa è stata il primo grande terreno su cui i leader dei Ventisette hanno cercato una sintesi. Ed è forse l’unico ambito in cui si è potuta osservare una chiara convergenza politica. Spinti dalla guerra in Ucraina e dalla percezione crescente di vulnerabilità, i capi di Stato e di governo hanno rilanciato l’obiettivo di costruire una reale capacità difensiva europea, non solo in termini simbolici, ma anche strutturali. Entro il 2030, l’UE dovrà essere pronta ad affrontare crisi complesse con forze comuni, interoperabili, ben equipaggiate e integrate in un sistema industriale continentale.
Il linguaggio usato nel comunicato finale non lascia spazio a fraintendimenti: l’Europa deve “potenziare le proprie capacità di deterrenza e difesa”, anche attraverso “investimenti pubblici e privati, progetti congiunti e un mercato interno della difesa pienamente operativo”. Per la prima volta, viene accolta esplicitamente l’idea di utilizzare le clausole di flessibilità del Patto di stabilità per le spese militari, una svolta che segna l’ingresso della difesa tra le priorità economiche europee al pari della transizione verde e digitale. Centrale, in questo quadro, sarà il ruolo della BEI, che dovrà allineare la propria politica di credito al nuovo paradigma strategico, rimuovendo i limiti oggi in vigore sui finanziamenti all’industria militare.
Sánchez rompe il silenzio europeo su Israele
Se sul fronte militare l’UE sembra aver trovato un terreno comune, la questione mediorientale ha invece fatto esplodere tutte le contraddizioni interne. A rompere l’equilibrio è stato il premier spagnolo Pedro Sánchez, che ha chiesto ufficialmente la sospensione dell’accordo di associazione UE-Israele, accusando il governo Netanyahu di violazioni sistemiche dei diritti umani e dell’articolo 2 del trattato stesso. “Stiamo assistendo a un genocidio a Gaza – ha dichiarato Sánchez – e l’Unione europea non può continuare a voltarsi dall’altra parte. Con la Russia abbiamo adottato 18 pacchetti di sanzioni. E con Israele cosa facciamo? Nulla”.
La sua posizione ha raccolto l’appoggio immediato di Irlanda, Belgio, Slovenia e Svezia, ma ha anche diviso profondamente il Consiglio. Francia e Germania, pur mostrando crescente inquietudine per la situazione a Gaza, si sono mantenute caute. Altri, come l’Italia, l’Ungheria, l’Austria e la Lituania, hanno difeso l’importanza strategica dell’alleanza con Israele, rifiutando ogni ipotesi di sospensione dell’accordo. Il premier sloveno Robert Golob ha avvertito che “in assenza di una posizione comune, la Slovenia prenderà misure unilaterali”, rilanciando l’idea di un fronte europeo pronto ad agire al di fuori del perimetro del consenso a 27.
La frattura non è solo diplomatica. Tocca il cuore della credibilità internazionale dell’UE. L’uso selettivo dei principi – condanna netta per Mosca, ambiguità verso Tel Aviv – mina l’idea stessa di un’Europa come attore normativo globale. Per molti osservatori, questa tensione rappresenta un passaggio critico: o l’UE troverà un linguaggio comune sui diritti e sul diritto internazionale, oppure cederà definitivamente a una logica di realismo politico che svuota la propria ambizione valoriale.
Migranti, traffico di esseri umani e nuove strategie di contenimento
Anche la migrazione è tornata al centro del dibattito, con un approccio sempre più improntato al contenimento e alla cooperazione esterna. Una riunione informale, convocata da Italia, Danimarca e Paesi Bassi, ha visto la partecipazione di altri 11 Stati membri e della presidente della Commissione Ursula von der Leyen. L’obiettivo: rafforzare le politiche di rimpatrio, potenziare gli accordi con i Paesi terzi e promuovere nuove forme di cooperazione per smantellare le reti dei trafficanti di esseri umani.
Il focus è sempre più sulla dimensione securitaria. Von der Leyen ha annunciato che il prossimo 10 dicembre si terrà un vertice globale contro il traffico di migranti. Il premier olandese Dick Schoof ha ribadito la necessità di una “maggiore capacità di controllo” da parte dell’UE, auspicando una revisione delle convenzioni internazionali che, a suo dire, non rispondono più alle nuove sfide migratorie. Non si è parlato, invece, di canali legali di ingresso né di protezione umanitaria, segno che l’orientamento prevalente resta quello del contenimento, anche a costo di sacrificare alcuni standard giuridici.
Est, confini e l’ombra lunga di Mosca
Non è mancata l’attenzione al confine orientale dell’Unione. In un contesto di tensioni crescenti con Russia e Bielorussia, il Consiglio ha riaffermato la necessità di garantire la sicurezza dei confini terrestri, aerei e marittimi, promuovendo investimenti congiunti e maggiore interoperabilità. È stato inoltre rinnovato il mandato della missione EUBAM in Libia fino al 2027, con l’obiettivo di rafforzare la capacità libica nel controllo delle frontiere e nella lotta al traffico di migranti e armi.
Una visione strategica sotto stress
Il Consiglio europeo prosegue e attualmente il bilancio è complesso. Da un lato, l’Unione mostra segnali di maturazione geopolitica: un’agenda di difesa chiara, strumenti finanziari adeguati, consapevolezza delle nuove minacce ibride. Dall’altro, si evidenziano fratture profonde sulla coerenza dei valori, sulla gestione dei conflitti esterni, sulla capacità di elaborare una narrazione condivisa. L’Europa si scopre più forte, ma anche più divisa.
La posta in gioco è alta. Se l’UE vuole davvero essere un attore strategico globale, dovrà dimostrare non solo di saper difendere i propri confini, ma anche di saper governare le proprie contraddizioni interne.
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