Ci sono parole che sembrano appartenerci da sempre e, più o meno a ragione, vengono attribuite a uomini di spessore al fine di veicolare esortazioni importanti.
È il caso della riflessione sulla bellezza, verosimilmente attribuita all’attivista siciliano Giuseppe Impastato e giunta a noi attraverso il film biografico del regista Giordana, in cui un magistrale Luigi Lo Cascio, interprete di Peppino, in un dialogo con l’amico Salvo, afferma: “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante nel davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre.
È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione e rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore.”
Educare alla bellezza
È un messaggio potente. Educare alla bellezza significa recuperare una particolare sensibilità estetica che diventa metro e giudizio del nostro vivere. Significa non rimanere anestetizzati di fronte alle brutture che ci circondano e che, sempre più spesso, popolano i luoghi che abitiamo; avere gli strumenti necessari per poter immaginare un mondo diverso. La bellezza è una lingua universale in grado di parlare a chiunque decida di impararla.
Dedizione e costanza
Dobbiamo tornare alle origini del diritto ambientale in Italia per veder associato il concetto di bellezza alla tutela del paesaggio, e per estensione, all’ambiente. Il 29 giugno 1939 entrò in vigore la legge Bottai, dal nome del Ministro della pubblica istruzione del Regno d’Italia che la propose. Fu una delle prime leggi in materia di tutela paesaggistica e sin da subito parve chiaro l’intento del legislatore di adottare un linguaggio attento all’estetica, basti pensare al titolo della legge: ‘protezione delle bellezze naturali’, e alle varie definizioni, tra cui quella data alle bellezze panoramiche descritte come ‘quadri naturali’.
Qualche anno dopo, in una nazione con livelli di analfabetismo tali da coinvolgere almeno 6 milioni di abitanti, la lungimiranza e la sensibilità di alcuni Padri Costituenti si tradusse nell’elaborazione dell’articolo 9 della Costituzione: uno dei dodici granitici principii fondamentali della Repubblica. Nell’articolo 9, che fonda tra l’altro il principio della promozione della cultura e della ricerca scientifica, viene affermata l’importanza della tutela paesaggistica e, a partire dalla svolta ecologista giurisprudenziale degli anni ’70, della più estesa tutela ambientale.
In un articolo comparso sulla rivista ‘Dike Giuridica’ il professor Valerio Pescatore, ordinario presso l’Università di Roma ‘La Sapienza’, sostiene che un’utile chiave di lettura per comprendere il contenuto dell’articolo 9 venga fornita dall’interpretazione dell’articolo 1 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, entrato in vigore nel 2004, in attuazione del principio costituzionale: “[l]a tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura.”. Ed è in questo senso che si deve intendere il diritto alla bellezza: un percorso orientativo per l’ordinamento e una forma identitaria collettiva.
La svolta
Si comincia a parlare di un diritto alla bellezza strettamente connesso al paesaggio e all’identità culturale della nazione: lo Stato, conscio della bellezza del patrimonio culturale e paesaggistico nazionale, ne diventa custode e promotore per ‘dettato costituzionale’ e per ‘identità millenaria’; i cittadini, in ossequio al principio di cittadinanza, diventano sentinelle e beneficiari del territorio. Può accadere, tuttavia, che alcuni infrangano questo ‘dovere’ sociale e diventino profanatori del bene collettivo.
La criminalità ambientale nel mondo
Si comprenderà bene la gravità e la portata della criminalità ambientale, ossia l’insieme delle attività illecite dannose per l’ambiente. I delitti ambientali possono essere considerati alla stregua non solo di un danno al bene ambiente e alla salute degli individui, ma come un vero e proprio ‘attentato’ ai principi fondamentali della Costituzione. Cosa dobbiamo intendere per criminalità ambientale?
La criminalità ambientale non ha una definizione specifica; è la quarta attività criminale al mondo – preceduta dal traffico di droga, di armi e dalla tratta di esseri umani – e abbraccia un ventaglio ampio di attività. Tra questi annoveriamo: la raccolta, il trasporto, il recupero o lo smaltimento improprio dei rifiuti, l’emissione illecita di sostanze nell’atmosfera, nell’acqua o nel suolo, il racket degli animali o delle specie vegetali selvatiche protette. E poi ancora, le forme più disparate di aggressione al patrimonio culturale, finanche gli illeciti perpetrati ai danni delle filiere agroalimentari ed il caporalato.
Si consideri, inoltre, che la criminalità ambientale è una delle attività più redditizie della criminalità organizzata mondiale.
E in Italia…
In Italia, tale trend non è certo differente: secondo il rapporto ‘Ecomafia 2024. Le storie e i numeri della criminalità ambientale in Italia’ di Legambiente, il fatturato degli ecoreati si aggira attorno agli 8,8 miliardi di euro. Ogni ora vengono commessi circa quattro ecoreati e ogni anno il numero sale vertiginosamente. Per tentare di arginare il fenomeno, nel marzo di quest’anno l’Unione Europea ha aggiornato il quadro normativo di riferimento, introducendo nuove ipotesi di reato e relative sanzioni. Di nuova introduzione sono il reato di esaurimento di risorse idriche, di inquinamento nautico ed i cosiddetti ‘reati qualificati“; tra questi, per esempio quelli che causano la distruzione di un ecosistema, per i quali si aprono le porte del carcere.
Inoltre, nel nostro Paese ad essere colpite sono soprattutto le regioni del Mezzogiorno, con Campania e Sicilia in testa. Medaglia d’oro nero per la provincia di Napoli, seguita da Avellino, Bari e Roma.
Le ecomafie
Le ecomafie – neologismo coniato dall’associazione Legambiente – ottengono i maggiori proventi dal ciclo illegale del cemento, immediatamente seguito dal ciclo illegale dei rifiuti. Le implicazioni di quest’ultima tipologia di reati, ogni anno in costante crescita, sono devastanti per la salute della popolazione, generando fenomeni di vittimizzazione di massa e arrivando ad investire pure i bystanders e le generazioni future.
Esempi di conseguenze lesive eclatanti possono essere forniti dalle vicende che hanno interessato la Terra dei Fuochi e il Triangolo della Morte, nel primo caso s’intende un’area compresa tra Napoli e Caserta, nel secondo un territorio tra i comuni di Acerra, Nora e Marigliano. Questi sono stati teatri di tragici eventi causati dalla criminalità organizzata, che ha esacerbato situazioni sociali già molto spinose.
Proprio da queste terre giungono modelli encomiabili di cittadinanza attiva. Qui le prime trincee vennero scavate non dalle istituzioni, non dalle autorità, ma dagli abitanti locali, determinati a preservare la bellezza del territorio e la loro stessa vita, minacciata quotidianamente dall’avidità del malaffare. Nel corso degli anni in questi territori sono sorte cooperative sociali che tentano di dare nuova vita a terreni prima abbandonati e soprattutto creare opportunità e inserimenti lavorativi per i più fragili. Le cooperative periodicamente affrontano intimidazioni, azioni violente e incendiarie, volte a scoraggiare e distruggere il loro lavoro di speranza.
Educare se stessi è la rivoluzione silente più inarrestabile di cui ogni cittadino deve rendersi artefice, per mantenere vivo lo stupore di fronte ai tentativi di rinascita che portano a coltivare bellezza in una terra intrisa di rassegnazione.