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    Crisi economica, libertà e corruzione: per cosa protesta la Gen Z in Nepal?

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    Dalle immagini diffuse su social e telegiornali emerge con chiarezza che quella scesa in piazza a Katmandu è la generazione degli ultimi, i figli delle caste più basse della società nepalese. Sono i giovani della Gen Z, appartenenti ai gruppi sociali più umili, che non accettano più di vedere il proprio Paese ostaggio di vecchie dinamiche di potere. Sono pronti a sfidarle, anche a costo di mettere le città a ferro e fuoco.

    Le cause della protesta

    All’inizio di settembre, il governo nepalese ha annunciato un provvedimento che mira a porre la gestione dei social network e delle piattaforme digitali sotto la tutela del Ministero delle Comunicazioni.

    La legge consente alle istituzioni governative di bloccare piattaforme e siti web – come Facebook, Instagram e YouTube – che non si conformino al nuovo sistema di registrazione presso gli uffici ministeriali, così come richiesto dalla norma. Di fatto, ciò significherebbe che la popolazione nepalese potrebbe vedere drasticamente limitato il proprio accesso agli strumenti di informazione digitale, a meno che le piattaforme non decidano di sottomettersi alle direttive emanate da Katmandu. 

    Il governo giustifica tale provvedimento con la necessità di arginare alcune delle distorsioni legate all’uso dei social: la diffusione dell’odio online, delle fake news e dei fenomeni di criminalità in rete.

    Eppure, per quanto queste motivazioni possano apparire ragionevoli, la misura si è impantanata in un terreno complesso, già segnato da profonde problematiche strutturali. Così, in modo quasi spontaneo, la legge è diventata la miccia che ha acceso la protesta: i giovani nepalesi, in particolare la Gen Z, non hanno accettato che il governo tentasse di limitare quella che considerano una delle libertà più preziose, ovvero il diritto di informarsi liberamente e di mantenere, attraverso i social media, una finestra aperta sul mondo.

    Non è un Paese per giovani

    Ridurre ciò che sta accadendo in Nepal a una semplice ribellione di ragazzi frustrati perché privati della possibilità di scorrere il feed di Instagram per guardare gattini o ricette di dolci sarebbe riduttivo. La rabbia dei giovani nepalesi nasce da cause molto profonde: è il frutto di anni di disillusione e di rivalsa repressa, alimentata da istituzioni che hanno tirato troppo a lungo una corda che si è ormai spezzata. 

    Anni di malcontento popolare, dovuto a un nepotismo sistemico della classe politica, a una disoccupazione giovanile tra le più alte al mondo e una povertà diffusa che costringe intere famiglie a mendicare per le strade. A questo si è aggiunto il provvedimento governativo di chiusura dei social network, seguito da una brutale repressione delle proteste. È stato questo il vaso di Pandora che ha portato alle dimissioni del Primo Ministro.

    Rabbia sociale

    Qualche giorno prima delle ribellioni, sui social nepalesi – in particolare su Viber, molto diffuso in Asia – erano circolati video e immagini dei figli delle élite: giovani privilegiati che ostentavano lusso e ricchezza, esibendo uno stile di vita agiato e distante dalla realtà quotidiana della maggioranza della popolazione. L’ostentazione, sommandosi alla corruzione e al sistema di nepotismo che spalancava le porte solo ai figli delle caste, ha esasperato una generazione fragile ed economicamente marginalizzata. 

    La reazione è stata  estremamente violenta: i palazzi governativi sono stati messi a ferro e fuoco, senza fare sconti.  Le fiamme che avvolgono i simboli del potere a Katmandu non sono solo il cuore pulsante della rivoluzione, ma è il manifesto di una sfida generazionale: i giovani nepalesi stanno riducendo in cenere i vecchi meccanismi che per decenni hanno perpetuato fame, miseria e ingiustizia.

    Qual è il destino del Nepal?

    La violenza di strada, dunque, non è mancata: gli scontri con la polizia sono stati brutali, al punto che l’esercito è stato dispiegato nelle piazze e continua a presidiare i principali centri urbani del Paese. Nel caos più totale, il bollettino di guerra è di almeno 51 morti in una sola settimana.

    Dopo l’imposizione di un coprifuoco che ha paralizzato il Nepal, riportando il Paese ai tempi della pandemia da Covid-19 – come riferito da un inviato del New York Times presente sul posto – le istituzioni rimaste hanno aperto uno spiraglio di dialogo, un confronto con i leader delle proteste giovanili per tentare di giungere a una soluzione di compromesso che consenta, almeno, la formazione di un governo provvisorio.

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