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    Dentro il carcere: un viaggio oltre gli stereotipi

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    Qual è la prima cosa che vi viene in mente quando pensate al carcere? La risposta di molti: celle, sbarre, prigionia, violenza. 

    Ma per chi ha l’opportunità di entrare in un penitenziario, queste immagini spesso non raccontano la realtà; prendendo in prestito le parole di Daria Bignardi: «Non è che le prigioni mi piacciano, al contrario. Ma dentro c’è l’essenza della vita: il dolore, l’amicizia, la malattia, la povertà, l’ingiustizia»1. Affermazione che potrebbe risultare enigmatica per chi non ha mai varcato la soglia di un carcere, ma che racconta con lucidità un mondo nascosto, difficile da comprendere se non lo si vive direttamente. 

    ASPETTATIVE PIACEVOLMENTE DELUSE 

    Quando si varcano le porte blindate per la prima volta, la sensazione è estraniante. La mente è invasa da immagini tratte dai film e dai racconti di cronaca: celle grigie, uomini minacciosi, violenza palpabile nell’aria. Ma, una volta dentro, qualcosa non torna. Certo, ci sono le formalità: il controllo dei documenti, il deposito degli effetti personali, il metal detector che segnala l’ingresso. Le celle sono anguste, i cancelli sbattono, ma quella paura viscerale, quella sensazione di cattiveria che ci viene raccontata, sembra sparire nel nulla. La realtà è più complessa.

    Si sente spesso dire che “dentro il carcere ci sono solo brutte persone”, che bisognerebbe “chiudere la porta e buttare la chiave“. Ma per fortuna, quella “chiave” non è solo un simbolo di esclusione: l’articolo 27 della Costituzione italiana ci ricorda che la pena deve avere come scopo la rieducazione del condannato. E, soprattutto, dietro la ‘brutta gente’ c’è una storia, una vita, una famiglia. Il carcere, infatti, è spesso un luogo di sofferenza profonda, ma anche di umanità, dove si creano legami di solidarietà e comprensione che sfidano ogni pregiudizio.

    Fattore ’sorprendente’ è l’atmosfera che si respira dentro. Ci si aspetta freddezza, distanza, incomunicabilità, e invece ci si trova davanti a una realtà che sembra quasi contraddirla. La sofferenza è palpabile, sì, ma anche l’empatia, la solidarietà tra detenuti. Si scopre che il carcere è un microcosmo dove la vita non si ferma, ma prosegue a dispetto della reclusione. La solidarietà tra chi vive dietro le sbarre è qualcosa di tangibile, e a volte, più di quanto si trovi nel mondo ‘libero’.

    LA DIFFICOLTA’ DELLE COSE SEMPLICI 

    Ogni richiesta, che sia per un colloquio con un educatore o per un incontro con uno psicologo, deve passare attraverso la cosiddetta ‘domandina’. Un termine innocuo e che sembrerebbe non meritare troppa attenzione, ma che ci fa interrogare sul perché non si possa chiamare semplicemente ‘domanda’.

    Una volta compilata, la richiesta viene firmata dal capo reparto e inviata al mittente. E se la risposta è negativa? Non si riceve un no formale. La mancanza di risposta, il silenzio che segue, diventa il modo per comunicare che non vi è spazio per quella richiesta

    Spazio non presente se si pensa ai numeri: a Rebibbia, ci sono 18 educatori per 1550 detenuti, ovvero 64 detenuti per ogni educatore. A San Vittore, la situazione è ancora più drammatica, con 85 detenuti per educatore. Numeri che non lasciano molto margine per un trattamento giusto e umano, volto alla rieducazione. 

    L’INESISTENTE CONTATTO CON L’ESTERNO

    Le comunicazioni con il mondo esterno sono limitate. Le persone detenute hanno un’ora di colloquio e una sola chiamata telefonica di dieci minuti alla settimana, due nel caso in cui ci siano minori a carico. Le condizioni in cui avvengono sono lontane da quelle che ci aspetteremmo. Le regole sono rigide, e l’intero processo è caratterizzato da lunghe attese, controlli severi, file interminabili. I familiari che arrivano per portare i pacchi sono sottoposti a controlli dettagliati: i pacchi devono essere contenuti in specifici formati e pesi, e per esempio le arance, tanto decantate dalle leggende metropolitane, devono essere sbucciate, tagliate e messe in contenitori trasparenti.

    L’attesa, la frustrazione, il calore d’estate e il freddo d’inverno sono gli ostacoli con cui devono fare i conti le famiglie, spesso costrette a prendere decisioni dolorose: è meglio far credere ai bambini che il genitore sia partito per un viaggio lontano piuttosto che spiegare loro la realtà del carcere. Una realtà che crea dentro di loro rabbia e disorientamento. 

    Quando il colloquio finisce, la persona detenuta torna nella sua cella. Una cella che non è mai davvero sola: c’è sempre qualcuno con cui condividerla, sei persone in uno spazio scomodo, con poco da fare e tanto su cui ragionare. Cosa si pensa in questi momenti? La vita fuori sembra distante, irraggiungibile. Eppure, nonostante il senso di solitudine e abbandono, molti tentano di farcela e aiutare quelle famiglie lasciate fuori. «Posso lavorare? Voglio mandare soldi a casa, la cella costa 108 euro al mese». La risposta che ricevono è sempre la stessa: «Non c’è lavoro, non ci sono fondi». E intanto, una statistica preoccupante ci ricorda che il 55,32% dei detenuti in Italia è in attesa di condanna definitiva. Si tratta di persone che non sono ancora colpevoli, ma che si trovano già intrappolate in un sistema che non offre alternative concrete.

    LA CONDANNA CONTRO L’ITALIA 

    Il sistema penitenziario italiano è stato oggetto di una condanna da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha sancito l’illegittimità dell’articolo 18 della legge sull’ordinamento penitenziario. Questo articolo prevedeva che i colloqui tra detenuti e coniugi o conviventi fossero sempre soggetti al controllo visivo del personale di custodia, ma la Corte con sent. n. 10/2024 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354 nella parte in cui, tenendo conto del comportamento della persona detenuta e ritenuto il fatto che questo non ostacoli il mantenimento dell’ordine in carcere,  non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere colloqui privati e dunque, senza il controllo a vista del personale di custodia

    La sentenza non solo riconosce un diritto fondamentale, ma ci invita anche a riflettere sulla necessità di un sistema penitenziario che sia davvero in grado di riabilitare e reintegrare i detenuti nella società.

    OLTRE IL REATO

    Si potrebbe pensare che, in fin dei conti, ‘’se la siano cercata’’. Eppure, è importante ricordare che dietro ogni condanna c’è una storia complessa, una vita interrotta. E che, forse, nel cercare soluzioni più umane e rieducative, potrebbe davvero diventare un luogo di rinascita.

    In definitiva, quelle mura non sono solo un luogo di punizione, ma anche un riflesso della nostra società. Una società che troppo spesso si concentra sulla condanna, piuttosto che sulla possibilità di riabilitare. Eppure, come ci insegnano le parole di Daria Bignardi, il carcere è anche «l’essenza della vita». E la vita, in tutte le sue sfaccettature, merita di essere vissuta con dignità.

    1. D. BIGNARDI, Ogni prigione è un’isola, 2024, Mondadori. ↩︎

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