Una città nella città: così vengono spesso descritte le carceri italiane. Un universo chiuso e opaco, ancora imprigionato in logiche punitive e di dubbia legittimità costituzionale, che alimentano le già note criticità strutturali, come quella del sovraffollamento. Questi problemi, nella stagione estiva, assumono una condizione ancor più insopportabile rispetto al freddo invernale, trasformando le celle in spazi bollenti e invivibili.
Il sovraffollamento
Se dovessimo considerare i dati forniti dal Ministero della Giustizia o dagli enti preposti alla gestione della vita detentiva, come il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ci troveremmo di fronte alla radiografia di un paziente malato: il sistema carcerario italiano.
La sua patologia più grave? Il sovraffollamento. Una condizione che riduce l’esperienza detentiva al limite di ciò che può essere definito umano e che, secondo varie organizzazioni sovranazionali e Trattati, può sfociare in trattamenti che rasentano la tortura. Ma non occorre neppure richiamarsi al diritto internazionale, basterebbe la nostra Costituzione, che con chiarezza afferma all’articolo 27 che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Eppure, la realtà dei numeri racconta ben altro.
Al 31 maggio 2025, nelle carceri italiane erano presenti oltre 62.000 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 51.296 posti. A questa cifra, tuttavia, occorre sottrarre circa 4.500 posti inagibili, come segnalato dall’Associazione Antigone. Il tasso medio di sovraffollamento raggiunge così il 133%, con punte drammatiche: il 220% a San Vittore (Milano) al 30 aprile 2025, il 212% a Foggia, il 205% a Brescia. E non mancano altre situazioni allarmanti: Taranto (190%), Como (188%), Regina Coeli a Roma (187%).
Questa condizione non grava soltanto sulla psiche dei detenuti, ma anche su coloro che, quotidianamente, vi sono in contatto: il personale della polizia penitenziaria. Un corpo sempre più esposto a stress insostenibili, che spesso degenerano in episodi di autolesionismo e, nei casi più gravi, nel suicidio.
Le carceri d’estate
Per comprendere appieno tale condizione, basterebbe un semplice esercizio di immaginazione. Un atto di coscienza che dovrebbe appartenere a chiunque abbia la responsabilità civile e morale della vita di oltre 62.000 persone in uno Stato che si proclama democratico.
Immaginate, per un istante, di trovarvi in una cella progettata per due persone ma occupata da sei. È giugno, e a Roma il caldo torrido mette in difficoltà persino i turisti che cercano ristoro tra un drink e una pietanza tipica nei locali della Città Eterna. Un caldo che per adulti e anziani può essere letale, figuriamoci in una cella sovraffollata, priva di spazio, dove i reclusi dispongono di un’ora d’aria al giorno. In quelle condizioni, la detenzione assomiglia più a una condanna a morte. Questo non un romanzo distopico, ma la realtà che ho personalmente toccato con mano durante una visita al carcere di Regina Coeli. Una realtà cruda, brutale: esseri umani relegati in condizioni che nessuna società civile dovrebbe tollerare.
Eppure, dalle istituzioni giungono soltanto timidi accenni, qualche intervento parlamentare, dichiarazioni isolate e prive di conseguenze concrete. Perché nelle carceri, specie d’estate, entra ben poca politica, e ancor meno attenzione mediatica. E allora accade che i detenuti, in sei, mettano insieme i pochi euro che hanno per acquistare un ventilatore, sperando di alleviare il dolore quotidiano provocato dalle alte temperature.
Senso di abbandono e tasso di recidiva
Chi passa le giornate intere a giocare a carte in una cella rovente, chi rimane chiuso in uno spazio che è più gabbia che stanza, chi non riceve alternative alla detenzione – percorsi di lavoro, formazione, reinserimento sociale – non potrà mai essere recuperato e non potrà mai vedere nello Stato, che oggi gli appare più come un carnefice, quella bussola morale che dovrebbe educare anziché punire. Non è un caso, dunque, che in Italia il tasso di recidiva resti così tanto elevato.
Il caso del carcere di Torino
Nel carcere Lorusso e Cotugno di Torino, durante una visita effettuata da una delegazione di Radicali Italiani, accompagnata da esponenti di Più Europa, Azione e l’Associazione radicale Adelaide Aglietta, è emersa una situazione che ha dell’incredibile. Un detenuto di 73 anni, affetto da gravi problematiche psichiatriche che rendono la sua condizione palesemente incompatibile con la detenzione, vive murato vivo nella propria cella, sigillata con carta stagnola e colla, con un unico foro per consentire il passaggio dell’aria.
Con l’arrivo del caldo, quell’ambiente si è trasformato in un inferno igienicamente complesso e pericoloso, dove l’uomo è costretto a respirare in modo forzato aria stagnante e nauseabonda. Esce dalla cella solo in rare occasioni, principalmente per i TSO. La sua condizione psichiatrica, che per legge e per elementari principi di umanità non dovrebbe prevedere la detenzione dietro le sbarre, rappresenta una violazione evidente dei diritti fondamentali, configurandosi come una forma di tortura nel pieno senso giuridico del termine.
Il caso ha spinto il segretario di Più Europa, Riccardo Magi, a presentare un’interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, chiedendo un intervento immediato per tutelare non solo la salute e la dignità di quest’uomo, ma anche quella di tutte le persone recluse e sottoposte alla custodia dello Stato.
In conclusione
Se è vero che il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri, come affermava Voltaire, allora per l’Italia non sarebbe scorretto affermare che di civiltà ve n’è ben poca. Soprattutto quando, nei mesi estivi, si costringono oltre 62.000 esseri umani a vivere in condizioni che violano i principi costituzionali e che sono lontane da qualsiasi definizione civile di Stato di diritto.
20250318