Sono trascorsi nemmeno tre giorni dall’annuncio trionfale del presidente Donald Trump sull’accordo di pace per Gaza, e già le prime crepe sembrano far vacillare una tregua ancora tutta da consolidarsi.
Tra le macerie fumanti, ha preso avvio la ‘fase due’: il delicato passaggio dalla guerra alla ricostruzione.
Nei fatti, però, dietro i proclami e le foto dei leader mondiali, nella Striscia si riaccendono micce pronte a esplodere: le problematiche legate alla restituzione degli ostaggi restano un nodo cruciale, Israele prepara un ‘piano b’ per colpire definitivamente Hamas e le milizie regolano i conti per il controllo del territorio.
La tregua, più che una vera fine, somiglia a una pausa trattenuta col fiato.
GLI OSTAGGI: TENSIONE CRESCENTE
Nove corpi restituiti su ventotto. Di questi, uno non apparterrebbe nemmeno a un ostaggio israeliano.
Il ritorno delle salme israeliane da Gaza, uno dei nodi centrali dell’accordo di pace, sta divenendo in queste ore il simbolo matematico amaro di una guerra che non sembra essere realmente finita, ma solo entrata in una fase più silenziosa.
Tel Aviv accusa Hamas di non consegnare appositamente le salme per prendere tempo e mantenere potere negoziale, il gruppo replica che è impossibile recuperare tutti i resti tra le macerie.
Hamas chiede dunque più tempo per trovare i corpi non ancora restituiti e afferma che avrà bisogno di “attrezzature speciali” per farlo, a causa di due anni di bombardamenti che si traducono, oggi, in tonnellate di macerie; è verosimile che molti di questi ostaggi non saranno mai ritrovati.
Intanto, mentre le famiglie degli ostaggi accusano il governo di aver raggiunto un accordo sbagliato, Israele riduce l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia e chiude il valico di Rafah al confine con l’Egitto.
“Se Hamas non rispetta l’accordo, Israele tornerà a combattere a Gaza, non appena avrà il mio via libera” – così Donald Trump poche ore fa alla Cnn.
La pressione cresce e un altro grande nodo del piano torna a galla: il disarmo di Hamas.
DISARMARE HAMAS: IL TALLONE D’ACHILLE DEL PIANO
Altra questione controversa e irrisolta – già nel piano stesso – riguarda la presenza di Hamas. “Solo un ruolo di polizia palestinese per un periodo di transizione”, aveva detto Donald Trump. Hamas, poche ore dopo, smentisce categoricamente e i suoi uomini tornano, armati e in uniforme, nelle strade.
Mentre Israele chiede il ritiro incondizionato del gruppo e l’Autorità Palestinese resta confinata a Ramallah, Gaza torna di fatto nelle mani di quello stesso gruppo che l’ha governata per anni.
Disarmare Hamas è, a tutti gli effetti, il tallone d’Achille più evidente dell’intero piano.
“Se Hamas non si disarmerà, lo disarmeremo noi” afferma, ancora una volta, Donald Trump – sicuro del suo miglior successo diplomatico – eppure questa retorica sembra essere, nei fatti, molto distante dalla realtà.
Nessuno degli attori in campo – USA, Israele, Egitto – potrebbe, infatti, concretamente entrare a Gaza per far deporre e confiscare le armi ad Hamas senza che questo si trasformi in un nuovo conflitto. Parallelamente, rinunciare al proprio arsenale significherebbe, per il gruppo, perdere l’unico concreto strumento di deterrenza e quindi di sopravvivenza politica.
Intanto le scene che giungono dalle strade della Striscia mostrano come i clan locali tentino di colmare quei vuoti di potere lasciati alle loro spalle dal ritiro israeliano con esecuzioni pubbliche da parte dei miliziani di Hamas per ristabilire il controllo del territorio.
IL BOARD DELLA TRANSIZIONE, UN CAMPO MINATO DIPLOMATICO
A rendere la situazione futura ancora più incerta c’è il ‘Board della transizione’: un comitato tecnico che dovrebbe gestire sicurezza e ricostruzione, in teoria. In realtà un nuovo campo di battaglia, diplomatico questa volta.
Hamas ha posto il veto su Tony Blair come supervisore, in quanto “simbolo dell’Occidente che ha distrutto il Medio Oriente” troppo vicino sia a Washington che a Israele, e il Cairo propone Abdel Fattah al-Sisi, presidente egiziano che negli ultimi mesi ha svolto un ruolo chiave nella mediazione delle parti. Anche questa proposta, però, sembra essere troppo politicizzata per un organismo che dovrebbe essere tecnico e neutrale.
Israele, intanto, ha già chiarito che non abbandonerà la Striscia finché il disarmo di Hamas non sarà verificato e il ministro degli Esteri Israeliano Katz avverte che qualsiasi violazione dell’accordo sarà considerata una riapertura delle ostilità.
SOPRAVVIVENZA TRA LE MACERIE
Sullo sfondo di una tregua che sembra essere tutto tranne che stabile, la popolazione civile tenta di sopravvivere in questo momento dove torna a respirare.
Alcuni mercati e panifici hanno riaperto, l’acqua è razionata e gli aiuti, finalmente tornati seppur in misura ridotta, offrono un labile sospiro di sollievo a una popolazione esausta e in condizioni critiche che è di fatto totalmente dipendente dall’azione esterna.
La ricostruzione annunciata resta, si spera ancora per poco, un concetto diplomatico e non una realtà.
Sono molti i gazawi che non credono a questa pace e che temono che la tregua serva solo a congelare, momentaneamente, una guerra che sembra non avere fine.
LA SFIDA DELLA PACE TRA RETORICA E REALTÀ
C’è una domanda che aleggia tra Gaza, Tel Aviv, Washington e che lascia il mondo intero con il fiato sospeso in queste ore di tensione: la pace di cui si parla è reale o solo un esercizio di retorica geopolitica?
Il piano di Sharm el-Sheikh è a tutti gli effetti un esperimento senza precedenti. Bisogna capire quanto sia un tentativo utopico di piegare la realtà alla diplomazia. In questo momento la vera sfida non è tanto far tacere le armi ma trovare un senso – politico e diplomatico – al silenzio che ne segue.
I punti critici del piano che ha condotto, almeno per ora a quella che appare come una tregua fragile ma che sembra reggere, sono molteplici. Con la pressione che cresce, ora dopo ora, resta da capire se la fase due può segnare davvero l’inizio di qualcosa di nuovo o se sarà solo l’ennesima pausa in una guerra che è iniziata molto prima dell’ottobre 2023 e che, solo da allora, si stima abbia causato circa 240.000 vittime – tra morti e feriti – quasi tutti civili.
20250400