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    Gender pay gap: il denaro non è maschio

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    Il gender pay gap (GPG) è una differenza di genere nella retribuzione che non dovrebbe esserci: la diversità tra uomini e donne non giustifica la disparità di trattamento, perché “differenza non significa carenza”. Tale fenomenologia rappresenta una delle sfide più complesse nel panorama economico e sociale moderno. Nonostante i progressi compiuti negli ultimi decenni, le donne continuano a guadagnare meno degli uomini per lo stesso lavoro o per lavori di pari valore. Quella della donna è una condizione legata ad un retaggio storico e culturale che ha origini molto antiche. Gli avvenimenti storici dimostrano, seppur con parentesi positive, il forte divario lavorativo, prima, e salariale, poi, tra uomo e donna; le donne, infatti, vivono costantemente una discriminazione di genere sul lavoro sentendo il “peso” di essere madri. Tutto questo è dovuto ad un’eredità culturale frutto di un connubio tra il modello patriarcale e quello moderno dell’economia.

    Divario retributivo in Italia e in Europa

    Questo fenomeno non solo riflette ingiustizie profonde e radicate nella società, ma ha anche implicazioni significative sul benessere economico complessivo di un Paese. A monitorare il divario di genere in tutto il mondo, da più di un decennio, è il Global Gender Gap Index , realizzato dal World Economic Forum: si tratta dello studio più longevo che, sin dalla sua nascita nel 2006, monitora nel tempo i progressi e gli sforzi di numerosi Paesi volti a colmare il divario di genere. Il Global Gender Gap valuta annualmente lo stato attuale e l’evoluzione della parità di genere sotto quattro dimensioni: partecipazione economica e opportunità, livello di istruzione, salute, sopravvivenza e empowerment politico. Il punteggio del divario di genere globale nel 2024 include 146 Paesi e si attesta al 68,5%. Rispetto al campione costante di 143 Paesi del report 2023, il divario di genere globale è stato decretato chiuso con un ulteriore +0,1 punto percentuale, passando dal 68,5% al 68,6%.

    Nella classifica di quest’anno l’Italia, con un punteggio di 0,703 su 1, si posiziona all’87esimo posto a livello generale, perdendo ben 8 posizioni rispetto al 2023; questo nonostante il netto miglioramento nell’area “livello di istruzione”. Ciò indica un rallentamento significativo nella riduzione del gender gap. Se si fa un paragone a livello europeo, il nostro Paese si colloca al 37esimo posto su 40, con al seguito Ungheria, Repubblica Ceca e Turchia. Nella sezione sulla partecipazione economica, invece, l’Italia è arrivata 111esima, peggiorando la propria performance di 7 posizioni rispetto al 2023 con un punteggio di 0.608 su 1. Nello specifico, sul tasso di partecipazione alla forza lavoro persiste una differenza di -17.4% tra quella delle donne e degli uomini (40.7% vs 58.1). Inoltre, la presenza femminile rimane sotto rappresentata; difficile l’accesso a posizioni apicali: percentuale di 42.6% nei Consigli d’Amministrazione. Infatti, solo l’11,5% delle aziende presenta una maggioranza di donne titolari del business, mentre il 15.3% fa capo a donne. Nessun cambiamento significativo: la parità di genere sul lavoro rimane un miraggio e il gender pay gap un fenomeno ancora molto difficile da eradicare.

    Come contrastarlo e quali sono le cause?

    Innanzitutto è bene specificare che la discriminazione salariale di genere è un indice che, di fatto, misura la discriminazione tra uomini e donne. Ne esistono di due tipi: gender pay gap “grezzo” – che si basa sulla differenza media della retribuzione lorda oraria, al lordo quindi della tassazione e della contribuzione – e il gender pay gap totale, che si basa sul salario orario, sul numero medio mensile di ore retribuite e sul tasso di occupazione femminile. Per calcolarlo bisogna tenere in considerazione molti fattori.

    Sono infatti diversi i criteri che bisogna individuare per effettuare questo calcolo, in aggiunta ciascun Paese potrebbe utilizzare parametri differenti per la misurazione: si possono considerare la paga ad ore, oppure lo stipendio settimanale o quello mensile, ma non solo. Secondo gli esperti, esisterebbero anche altri elementi che non vengono normalmente inclusi nel calcolo, ma che sono importanti per capire le difficoltà che le donne possono sperimentare quando entrano nel mercato del lavoro: tra questi, l’accesso all’istruzione che porta a ricoprire determinati ruoli, il background sociale e le opportunità di crescita. Tuttavia, esistono misure concrete che possono essere adottate per ridurre il gender pay gap e promuovere l’uguaglianza retributiva. Politiche di trasparenza salariale, congedi parentali equamente retribuiti per entrambi i genitori e iniziative per aumentare la rappresentanza femminile in settori tradizionalmente dominati dagli uomini sono solo alcune delle strategie che possono fare la differenza.

    È importante sottolineare che l’esistenza di questo fenomeno è riconducibile a una serie di complesse dinamiche, tra cui: le discriminazioni dirette e indirette sul luogo di lavoro, la segregazione occupazionale – ovvero una distribuzione non equilibrata tra i diversi settori produttivi – pregiudizi di genere, oltre che la mancanza di bilanciamento tra lavoro e vita privata cui fa seguito un maggior numero di ore di lavoro non equamente retribuite. Il fenomeno del gender pay gap è quindi estremamente complesso e non si riduce alla mera disparità salariale. È indicativo di un sistema più ampio che richiede un profondo cambiamento culturale per essere eliminato. Inoltre, va considerato che spesso manca di vere spiegazioni oggettive, come una formazione inferiore o competenze minori rispetto ai colleghi maschi.

    Legislazione nazionale

    Analizzando il fenomeno sul piano giuridico, il legislatore nazionale ha cercato di dare una risposta a queste problematiche anche alla luce del diritto europeo. La fonte primigenia a cui fare riferimento è la Costituzione: in particolare, gli articoli 3, 4, 37, 48, 51 e 117 hanno delineato un quadro normativo costituzionale basato sul principio di non discriminazione e uguaglianza (formale e sostanziale) tra uomo e donna, promuovendo l’adozione di azioni positive atte a rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che ne impediscono l’effettiva realizzazione. A livello legislativo, invece, occorre citare la Legge 66/1963, che ha riconosciuto alla donna l’accesso alle cariche pubbliche; la Legge 903/1977, che ha introdotto la parità di trattamento ai fini previdenziali e soprattutto ha posto un divieto generale di discriminazione diretta per l’accesso al lavoro; infine la Legge 125/1991 (successivamente modificata dal D. Lgs. numero 145/2005, recependo la Direttiva 2002/73/CE) che ha posto un divieto alle discriminazioni indirette, dando anche una definizione alle azioni positive, vale a dire misure tese a rimuovere gli ostacoli di fatto che impediscono la realizzazione delle pari opportunità.

    La disciplina ha trovato una regolamentazione organica all’interno del D. Lgs. numero 198/2006 (recentemente modificato attraverso la Legge 162 del 2021, cosiddetta Legge Gribaudo) conosciuto come “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna”. Con questi sei articoli dedicati alla parità salariale fra i generi, viene integrato il Codice delle Pari Opportunità del 2006. L’obiettivo è ridurre la differenza di salario tra donne e uomini, oltre che far emergere ogni discriminazione, anche indiretta, in ambito lavorativo. «La legge dà concretezza ai principi di equità già sanciti in Costituzione e nella legge Anselmi del 1977, che rischiavano di rimanere lettera morta», afferma Gribaudo. Il testo agisce su due binari: la trasparenza e la premialità. La legge prevede che le aziende con più di 50 dipendenti abbiano l’obbligo di stilare un rapporto sulla situazione del personale secondo diversi indicatori: salari, organizzazione interna, opportunità di carriera, inclusività e conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Successivamente, queste dovranno trasmettere il rapporto al Ministero del Lavoro, all’Ispettorato del Lavoro, ai sindacati e alle Consigliere di Parità. Il testo sarà consultabile su una piattaforma pubblica anche dalle lavoratrici e dai lavoratori; in questo modo si potranno garantire trasparenza e pubblico accesso ai dati.

    Per il World Economic Forum, l’Italia occupa il 63esimo posto su 156 Paesi nella classifica del gender gap, e anche restringendo l’obiettivo alla sola Europa l’Italia risulta essere tra le ultime posizioni. Non basta un intervento legislativo, ma serve una vera rivoluzione culturale. «Le buone leggi possono aiutare, ma da sole non bastano: per farle vivere appieno serve l’impegno di tutte e tutti, dentro e fuori dal Parlamento»

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