Tutti noi questi giorni ci siamo interessati agli scioperi generali indetti da Cgil e Uil, di cui Landini si fa portavoce. In questo articolo, dunque, vedremo che cosa contestano i sindacati al Governo e, in particolare, alcune nuove disposizioni della legge di bilancio presentate da quest’ultimo al Parlamento.
Abbassamento del coefficiente di trasformazione delle pensioni
Uno degli aspetti più critici riguarda la diminuzione delle pensioni, in conseguenza della riduzione del coefficiente di trasformazione, a dire il vero per niente discussa. L’art. 1 della legge 335/1995, al comma 6, sancisce che l’importo della pensione annuale viene calcolato con metodo integralmente contributivo dal 1996.
Come si calcola la pensione annuale? Essa viene computata moltiplicando il montante individuale dei contributi – l’importo complessivo dei contributi versati durante la propria carriera lavorativa, rivalutati sino al momento della liquidazione della pensione, moltiplicati per il coefficiente di capitalizzazione determinato in base alla variazione quinquennale del PIL – per il coefficiente di trasformazione relativo all’età dell’assicurato al momento del pensionamento.
Ebbene, dal 1° gennaio 2025 i coefficienti di trasformazione verranno ridotti: questi ultimi infatti vengono rivalutati ogni due anni con decreto del ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto col ministro dell’economia e delle finanze (art. 1, co. 11, legge 335/1995) sulla base delle rilevazioni demografiche e dell’andamento effettivo del tasso di variazione del PIL di lungo periodo rispetto alle dinamiche dei redditi soggetti a contribuzione previdenziale, rilevati dall’ISTAT.
Ovviamente non è una diminuzione portata avanti esclusivamente dal Governo attualmente in carica: negli ultimi 10 anni il coefficiente ha sempre teso a ridursi.
Disincentivi e restrizioni al pensionamento
Vengono introdotti dei disincentivi e delle restrizioni al pensionamento con il nuovo Disegno di legge bilancio. Il primo tra tutti è quello dell’art. 1 co. 286 legge 197/2022, il quale prevede che chi abbia i requisiti per conseguire il trattamento di pensione anticipata flessibile, la c.d. “Quota 103”, può rinunciare all’accredito contributivo a suo carico, ossia il 9,19% dello stipendio, con esonero da parte del datore di versare la parte dei suoi contributi all’INPS (sempre in riferimento a quelli del lavoratore, in misura pari al 23,81%). In questo caso il datore verserà la quota contributiva IVS – cioè quella pari al 9,19% – direttamente al lavoratore e non all’INPS, con esonero per detta quota alla formazione dell’imponibile per il lavoratore (art. 23 DDLB).
Come restrizione al pensionamento, invece, si abrogano le disposizioni (art. 72, co. 11, d.l. 112/2008) relative alla possibilità, da parte delle Pubbliche amministrazioni e delle autorità indipendenti, di promuovere coattivamente il pensionamento del contribuente che avesse maturato i requisiti per il raggiungimento dello stesso (risoluzione unilaterale del contratto). Viene abrogato anche il limite insuperabile di età del pensionamento relativo ai singoli settori della P.A. (art. 2 co.5 d.l. 101/2013). Infine, le amministrazioni pubbliche avranno la facoltà di trattenere i lavoratori anche oltre il limite di età previsto per il collocamento in pensione, ma comunque non oltre i 70 anni.
Le pensioni minime
Le pensioni minime – cioè quelle corrispondenti al trattamento minimo pensionistico, dunque la somma minima di pensione – verranno aumentate da 614,77 euro a 617,9 euro per il 2025, con un aumento pari al 2,2%, mentre per il 2026 saranno aumentate dell’1,3%, da calcolare sull’importo della legge di bilancio del 2023. Inoltre, le pensioni dei residenti all’estero non saranno rivalutate in base all’inflazione, se superiori al trattamento di pensione minima (art. 25 Ddlb).
Scaglioni IRPEF
Gli scaglioni IRPEF, come introdotti dall’art. 1, co. 2, D.lgs 216/2023, sono riconfermati nella seguente determinazione:
- 23% per i redditi fino a 28.000 euro;
- 35% per i redditi da 28.000 a 50.000 euro;
- 43% per i redditi da 50.000 euro in poi.
Qui non ci sono precisazioni giuridiche che si possano fare, ma l’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB) ha identificato delle aliquote marginali molto più gravose di quelle previste dalla legge (ossia le tre aliquote riportate sopra) che originano dalle detrazioni e dai bonus che modificano il precedente taglio del cuneo fiscale, calcolate su fasce di sotto-reddito rispetto a quello da tassare in base alle aliquote legali. Queste aliquote marginali effettive rilevano ai fini del cuneo fiscale, cioè della differenza tra ciò che il lavoratore percepisce e ciò che versa il datore di lavoro in stipendio lordo. Le aliquote marginali divengono 7 (pag. 87 del documento):
- Sotto gli 8500 free tax;
- Da 8500 a 15 mila euro, 18%;
- tra i 15 mila e i 20 mila euro, 28 %;
- tra i 20 mila e i 28 mila euro, 33 %;
- tra i 28 mila e i 32 mila euro, 43 %;
- tra i 32 mila e i 40 mila euro, 56 %;
- oltre i 40 mila, 43%.
Tutto questo crea un paradosso e un sistema di fatto regressivo, ossia un sistema dove le aliquote decrescono con l’aumentare del reddito.
I referendum di Landini (e della CGIL)
Oltre agli scioperi, motivati dai provvedimenti che abbiamo analizzato, Landini propone altresì alcuni referendum.
Primo referendum
Il primo referendum abrogativo si propone di eliminare totalmente il Dlgs 23/2015, ossia il c.d. “Jobs Act”, in favore dell’applicazione della legge 183/2014.
Queste leggi differiscono per il fatto che per il Jobs Act, attualmente, l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori prevede che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato sia risolto qualora il datore di lavoro abbia licenziato il lavoratore senza giusta causa o senza giustificato motivo, tranne per l’ipotesi di discriminazione sul lavoro, per cui in questo caso il licenziamento è nullo e si ha la reintegrazione del posto di lavoro. Con l’abrogazione di tale legge, si prevede invece il ritorno alla disciplina precedente, con la reintegrazione del prestatore di lavoro nel contratto a tempo indeterminato dopo la sentenza di condanna del giudice nei confronti del datore di lavoro.
Ci sono però due fragilità in questa proposta:
- la prima è che il quorum della metà più uno degli aventi diritto di voto non venga raggiunto;
- la seconda è che il datore di lavoro potrebbe rivalersi in modi peggiori sul prestatore di lavoro se questo decidesse di servirsi della reintegrazione del posto a fronte della nuova disciplina, anche se la scelta fosse facoltativa.
Mancano delle politiche sanzionatorie per il datore di lavoro, fatto salvo il risarcimento del danno, come ad esempio la sua sostituzione laddove si possa eseguire come provvedimento (a titolo esemplificativo, il direttore generale di una società che licenzia ingiustamente un lavoratore dipendente dovrebbe essere sostituito). Servirebbero dunque anche delle politiche additive, e non solo demolitorie.
Secondo referendum
Viene proposto un secondo referendum abrogativo, relativo al limite delle 6 mensilità come risarcimento del danno per il dipendente licenziato senza giusta causa o giustificato motivo che abbia maturato un tempo di lavoro inferiore a 10 anni nelle piccole imprese con dipendenti inferiori a 15 (si abroga l’art. 8 della legge 604/66 come sostituito dall’art. 2 co. 3 l. 108/90). Permangono le difficoltà esposte per il primo referendum.
Terzo referendum
Si propone di introdurre una causale per i contratti a tempo determinato (abrogazione art. 19 dlgs. 81/2015). Ad oggi, il datore di lavoro può proporre i contratti a tempo determinato inferiore a 12 mesi senza alcuna causa giustificativa: sostanzialmente ciò vuol dire che il datore può assumere lavoratori con contratto a tempo determinato senza mai dargli la possibilità di sottoscrivere un contratto indeterminato, dato che non c’è un obbligo di legge di addurre una motivazione (causale) per cui si sottoscrive questo contratto.
Nel caso in cui i contratti siano superiori a 12 mesi e senza causale giustificativa valida, il contratto a tempo determinato si converte automaticamente in contratto a tempo indeterminato. Quali sono le conseguenze? La prima è che, comunque, la proliferazione di altri contratti di precarietà – per esempio i contratti di apprendistato e di stage – non viene affatto contenuta; le altre sono le stesse riportate nei quesiti precedenti, ossia che non si introducono sanzioni ulteriori per il datore e che il quorum molto probabilmente non verrà raggiunto.
Quarto referendum
Il quarto referendum prevede l’abrogazione dell’art. 26 co. 4 dlgs. 81/2008 con l’introduzione della responsabilità in solido del committente oltre che dell’appaltatore e del subappaltatore per danni provocati al lavoratore, in conseguenza delle attività specifiche di rischio delle imprese (malattia o infortunio). Non sembra esserci, in realtà, una logica stabile dietro questo provvedimento: perché il committente che ha pagato l’appaltatore dovrebbe rispondere, ad esempio, di un infortunio di un lavoratore, siccome quest’ultimo – l’appaltatore – non ha messo in campo un sistema preventivo adeguato? Dovrebbe rispondere solo l’appaltatore così come razionalizzato dalla legge.
In conclusione
Altri motivi che hanno portato alla proclamazione degli scioperi sono i tagli alla sanità, alla scuola, all’università, alla ricerca, la mancata stipulazione dei nuovi CCNL e lo spostamento di fondi nel settore delle armi.
Non si vogliono qui approfondire questi temi, ma sembra che la richiesta di revisione della manovra di bilancio propugnata non possa essere veramente attuata. Purtroppo, il potere di migliorare la condizione dei lavoratori e dei cittadini non compete più ai sindacati, ma al Governo con la legge di bilancio, e pertanto solo a quest’ultimo è rimesso il potere di migliorare i salari e le pensioni e di garantire un posto di lavoro stabile.
Più i tagli vengono esacerbati, più i salari e le pensioni diminuiscono; ecco spiegata la riduzione di massa dei posti di lavoro pubblici e l’aumento della precarietà. I cittadini sono sempre più poveri, pagano sempre più tasse, vanno in pensione più tardi e hanno sempre meno servizi. Né la politica, né i sindacati sembrano riuscire a risolvere i problemi dei cittadini, portando di fatto ad un malcontento popolare.