Le famiglie dei detenuti vivono in una realtà spesso ignorata, fatta di sacrifici, stigma sociale e difficoltà quotidiane. Restare accanto a chi è in carcere non è una scelta semplice, ma un atto di amore e resistenza. Questo racconto, con l’aiuto di chi lo vive, dà voce a chi, pur non avendo commesso il reato, si trova suo malgrado a scontarne le conseguenze.
Le conseguenze di un reato
Raccontare la realtà dei detenuti e delle loro famiglie significa dare voce a persone spesso dimenticate. Le famiglie, in molti casi, si ritrovano coinvolte in situazioni che non hanno scelto né causato. Eppure, di fronte a tutto questo, l’alternativa quale sarebbe? Abbandonare chi si ama nel momento di maggiore difficoltà? Se è vero che i legami familiari resistono nella gioia e nel dolore, allora il loro sostegno diventa inevitabile.
Spesso, la società tende a emarginare queste persone, il cui unico “errore” è quello di rimanere accanto a chi si trova in carcere. Senza il supporto di una famiglia, il percorso di un detenuto diventa ancora più complesso e il rischio di ricadere negli stessi errori aumenta. La famiglia rappresenta un vero e proprio salvagente, ma stare vicino a chi è in carcere è estremamente difficile. Il cambiamento è improvviso, i rapporti si trasformano senza preavviso e si oscilla continuamente tra il desiderio di allontanarsi e la volontà di restare per offrire un futuro migliore a chi sta scontando una pena.
Molto spesso sono le donne a trovarsi in questa situazione. Basta osservare i social per rendersi conto di come molte di loro cerchino di raccontare il lato nascosto del carcere, condividendo esperienze, emozioni e difficoltà. Dietro ogni detenuto c’è una famiglia che soffre, eppure questa sofferenza raramente viene considerata. I casi mediatici attirano l’attenzione, ma ci si chiede mai come stia la famiglia di chi viene coinvolto? Sui social non esistono sconti: il reato di un compagno, di una madre, di un figlio diventa una condanna anche per chi è rimasto fuori.
La voce di chi lo vive
Un esempio significativo è quello di Giulia Adduci, la moglie di una persona detenuta in attesa di giudizio, quindi ancora non condannata. Eppure, per il solo fatto di avere un marito in carcere, è stata sommersa di commenti negativi sui social. La sua “colpa”? Semplicemente essere rimasta accanto al marito. La società sembra ergersi a tribunale supremo, incapace di distinguere tra chi ha commesso un reato e chi, invece, lo subisce indirettamente.
Giulia ha tre figli, di cui due molto piccoli. Da un anno, la sua vita è cambiata radicalmente. Ora è lei il pilastro della famiglia: si sveglia presto, porta i figli a scuola, si occupa di tutto. Racconta di non aver realizzato subito la portata della situazione, ma di aver compreso davvero solo quando si è ritrovata sola a letto, senza di lui. In molte storie simili, il rapporto tra coniugi o si spezza o si rafforza. Non è raro che siano gli stessi detenuti a voler allontanare la propria famiglia per risparmiarle il dolore. Ma questa non è la loro storia: “quando sei distante, ti rendi conto di quanto realmente lo ami, di quanto sei disposta a stargli vicino’’, dice Giulia. La famiglia è fondamentale per le persone detenute, e ha per questo il ‘compito’ di rasserenarle, seguirle e “fargliela pesare il meno possibile“.
Ci racconta che un altro problema fondamentale è la gestione dei colloqui in carcere. Gli spazi sono insufficienti, spesso inadeguati, e l’ambiente risulta ostile, soprattutto per i bambini. Controlli severi, confusione, presenza costante di agenti: tutto questo rende ogni incontro un’esperienza difficile. Eppure, questi momenti sono essenziali per mantenere un legame familiare. La società si interroga su quale sia la soluzione: impedire ai bambini di entrare o migliorare le condizioni di visita? Se la seconda opzione non viene considerata, ciò significa accettare implicitamente la prima, privando così un figlio del rapporto con il proprio genitore. Ma è davvero giusto negare a un bambino il diritto di vedere suo padre o sua madre?
Il diritto all’affettività in carcere
Il diritto all’affettività in carcere è un tema delicato ma fondamentale. La Costituzione italiana, all’articolo 27, sancisce che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, un principio che non può prescindere dal mantenimento dei legami affettivi. La Corte Costituzionale ha più volte ribadito l’importanza di garantire ai detenuti la possibilità di preservare i rapporti con i propri familiari, per esempio nella sentenza n. 301 del 2012, in cui ha affermato che il diritto all’affettività rientra tra i diritti inviolabili della persona.
Anche la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha richiamato l’Italia su questo tema, sottolineando che impedire o limitare in modo irragionevole i colloqui con i familiari può costituire una violazione dell’articolo 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che tutela il diritto alla vita privata e familiare.
Tuttavia, la legislazione italiana presenta ancora molte lacune. Se da un lato l’ordinamento penitenziario prevede la possibilità di incontri periodici, dall’altro mancano strutture adeguate per garantire un ambiente dignitoso in cui poter esercitare questo diritto. La questione degli spazi per i colloqui e dell’eventuale introduzione di stanze per la visita affettiva, già presenti in altri Paesi, rimane ancora aperta. Il dibattito è più che mai attuale: il diritto all’affettività non è un privilegio, ma una componente essenziale del percorso di reinserimento sociale del detenuto. Privarlo dei rapporti familiari significa non solo aggravare la sua condizione, ma anche infliggere una pena indiretta a chi, fuori dal carcere, cerca di mantenere un legame e di costruire un futuro.
Niente è impossibile
In fondo, “il libro non si giudica dalla copertina’’, ha dichiarato Giulia. La sua storia e quelle di tante altre famiglie dimostrano quanto sia facile etichettare, dimenticando che ogni dietro ogni detenuto ci sono persone che soffrono, lottano e cercano di mantenere un equilibrio difficile. Sostenere chi è in carcere non significa giustificare gli errori, ma riconoscere che il legame familiare può essere una chiave per il cambiamento. Se davvero crediamo nella funzione riabilitativa della pena, allora dobbiamo riconoscere il diritto di queste famiglie a non essere giudicate, ma ascoltate e comprese.
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