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    Il fallimento delle politiche proibizioniste sulle droghe

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    Non c’è dubbio: la droga fa male. Alcol, tabacco, cannabis, eroina e cocaina sono sostanze devastanti che, con il tempo, erodono le funzionalità vitali del corpo umano, colpendo organi vitali e intaccando il fragile equilibrio del cervello e delle sue funzioni. Ma è proprio su questo punto che si dovrebbe fare un passo oltre: anziché limitarci a evidenziare i danni delle sostanze, sarebbe cruciale analizzare come le politiche proibizioniste, adottate storicamente dalla maggioranza dei governi mondiali, abbiano paradossalmente alimentato il potenziale distruttivo della droga.

    Le origini della proibizione

    Esiste un fronte opposto al proibizionismo: chi sostiene la regolamentazione del settore. “Legalizzare lo Stato”, sosteneva Marco Pannella. E le parole, in questo contesto, contano eccome. Regolamentare, legalizzare, normare le droghe non significa renderle liberamente accessibili. La droga, di fatto, è già liberissima. Con uno smartphone chiunque può accedere a canali Telegram dove la compravendita di stupefacenti è pratica consolidata: cocaina, eroina e soprattutto cannabis e hashish si trovano a portata di clic. Quello che raramente si trova in questo mercato parallelo sono proprio altre e comuni “sostanze killer” – come le definisce anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità – quali: alcol, tabacchi e derivati. Come mai? La risposta è chiara: non sono proibite e sono percepite come “normalizzate”. La cannabis, al contrario, subisce un pesante pregiudizio scientifico e culturale, amplificato proprio dalle politiche proibizioniste.

    Le radici di questo fenomeno e del fallimento sistemico che ne deriva, almeno nell’era contemporanea, affondano le loro basi oltre oceano. In un Paese che recentemente ha rinnovato la fiducia a un ex Presidente e si prepara ad accoglierlo nuovamente come inquilino al numero 1600 di Pennsylvania Avenue, Washington DC. Ecco come gli Stati Uniti, il Paese della libertà e della più grande democrazia del globo, hanno fallito nella loro politica proibizionista degli alcolici.

    L’eredità dell’alcol proibito

    17 gennaio 1920. I saloon della New York andata sono già in disuso. Le birrerie, le cantine di whiskey, gli sgabelli dove gli operai edili che costruivano i primi imponenti grattacieli potevano sorseggiare l’American Dream, sono ormai vuoti. È entrato in vigore il XVIII emendamento. Ma gli americani, paladini della libertà di scelta, portatori di ideali individualistici e di democrazia, decidono di contrastare fin da subito questa nuova legge! O, forse, volevano solo bere. Questo è difficile da decretare, ma entrambe le opzioni, malgrado l’alcol non sia un elisir di lunga vita, risultano abbastanza lecite.

    Dopo un anno dalla ratifica del presente articolo è vietata la fabbricazione, la vendita o il trasporto di liquori inebrianti all’interno degli Stati Uniti, la loro importazione o esportazione dagli Stati Uniti e da tutti i territori soggetti alla loro giurisdizione per le bevande”, recitava la prima sezione del XVIII emendamento. Questa legge, promossa dal Women’s Christian Temperance Union, un sindacato femminista che si batteva contro gli effetti devastanti dell’alcol sui consumatori, assieme a dei gruppi cristiani protestanti anti-bar – non si comprende ancora la mostruosa contraddizione con la liturgia del “sangue di Cristo” –, ebbe il merito di trasformare milioni di consumatori americani in criminali incalliti. Oggi ci sembra impossibile pensare a una vita, anche nelle più semplici azioni quotidiane, senza alcol. Dal bicchiere di vino rosso la domenica a tavola con i propri cari, fino allo spritz post-lezione una volta conclusa la giornata in università. Una gestualità che ha reso queste bevande parte di una vera e propria cultura popolare. Ma negli Stati Uniti, dal 1920 al 1933, tutto ciò era proibito, anzi, severamente proibito. Questa proibizione, ovviamente, non ha fermato l’amore per l’alcol degli americani. Era possibile, infatti, sorseggiare qualche goccio di birra da una bottiglia nascosta in buste di cartone, i piccoli bar occultati nelle mura o negli scantinati di altri locali, i famosissimi speakeasy, oggi meta turistica d’obbligo se si vuole visitare New York, erano stracolmi di operai, medici, avvocati e forse anche qualche poliziotto corrotto che beveva per dimenticare. I saloon, inoltre, erano l’unico luogo in cui gli immigrati, compresi i nostri bisnonni dell’Italia del sud, ritrovavano una fetta di tempo per socializzare, conoscersi e integrarsi nel nuovo contesto americano. Loro, non tanto per le bollicine, furono i primi a essere penalizzati dalle politiche proibizioniste del Governo.

    Ma alla fine, il proibizionismo dell’alcol ha veramente funzionato? Più o meno!

    Affermare che la criminalità americana sia nata dal contrabbando di alcolici sarebbe un azzardo, ma il contributo, soprattutto economico, che la proibizione ha dato ai gangster dei primi anni del Novecento fu certamente importante. Il McSorley’s Old Ale House, storico pub newyorkese situato dal 1854 al 15 E 7th Street, non troppo distante dal Washington Square Park, vanta una gloriosa storia di successi alcolemici. Da 170 anni fornisce whiskey, bourbon e, soprattutto, birra ai propri consumatori. Non ha mai chiuso, nemmeno dopo l’approvazione del XVIII emendamento, riuscendo a vendere bevande a base alcolica a bassa concentrazione, tollerate dall’autorità politica e di polizia. Ma nelle ore più buie della notte newyorkese, il bar vendeva alcol a contrabbando nei suoi seminterrati. Nel sottosuolo della Grande Mela vi era un articolato sistema di produzione alcolica volto a soddisfare la sete di birra degli americani più intransigenti, che non trovavano appagamento nel bere cocktail annacquati. Gregory de la Haba, attuale direttore del pub, alla domanda “Cosa facevate durante il proibizionismo?” rispose, senza indugio e con un moto d’orgoglio, “Un sacco di soldi!”. Ora, è chiaro che un bar non rappresenta un sistema criminale. Quella del McSorley’s Old Ale House è la storia di una realtà locale che “arrangiava” con le birrerie clandestine nei seminterrati. Chi si è riempito le tasche attraverso il proibizionismo fu il sistema di bande criminali che gestiva la rete dell’alcol negli Stati Uniti, non troppo differente da quello che oggi i narcos fanno con la coca. A rimetterci, in tutti i sensi, erano i consumatori, spesso facenti parte della classe più povera della popolazione, che consumavano liquori e gin letali.

    Il proibizionismo ha avuto il merito di ridurre i morti per cirrosi, almeno secondo i dati dell’epoca, ma ha completamente ignorato i devastanti effetti che ha avuto su chi l’alcol non l’ha smesso di bere, incentivando la criminalità organizzata e le guerre di mala tra gang che si contendevano “sgabelli di spaccio”. Alla fine, se non si crepava di cirrosi, c’era sempre un proiettile di un gangster, abile corruttore di politici, poliziotti e funzionari pubblici, che ti perforava il cervello. Un risultato che, tuttora, il Governo americano fatica ad ammettere.

    Proibizionismo e KKK

    Piccola parentesi: quando si parla di criminali, s’intende anche suprematisti bianchi, antisemiti, islamofobici e xenofobi, che, per frustrazione e giustificati da un sistema che, tutto sommato, non li biasimava, menavano gli stranieri che bevevano. Se il famoso Al Capone è riuscito, anche attraverso la vendita di superalcolici, a costruire il suo impero criminale, c’è chi, invece, grazie al proibizionismo, ha fomentato i suoi odi verso gli immigrati. Le prime ronde del Ku Klux Klan, che conducevano attività antimmigrazione e esterofile nelle strade delle grandi città americane, nacquero proprio in questo periodo. L’inizio del proibizionismo coincide precisamente con il dilagare di pratiche discriminatorie in tutti gli Stati: i saloon, considerati luoghi di ritrovo per molti membri della comunità nera e non solo, erano costantemente sotto sorveglianza della classe media bianca, pronta a denunciare possibili bevute clandestine. Questo se ti andava bene. Se ti andava male, potevi finire sotto le grinfie del suprematista di turno, fino a essere violentemente vessato o, a volte, ucciso. Non ce n’era per nessuno: neri, italiani – i cosiddetti “mangia spaghetti” –  e, in generale, chi aveva la melatonina leggermente pronunciata. A pagarne le conseguenze, in tutto ciò, furono i tribunali federali, stracolmi di fanatici etnocentrici e “ubriaconi” che dormivano sotto i ponti. Da qui, appunto, nacquero i primi e rinomati patteggiamenti.

    Cagliari come Washington

    Cos’hanno in comune i sardi e gli americani? Molte cose, probabilmente: il patriottismo, l’amore per le proprie radici e per la propria terra. In più, il contrabbando di alcol! Si presume che i primi distillati dell’isola siano datati, all’incirca, tra il 1120 e il 900 a.C. Per secoli, la cultura e la coltura dell’alcol Made in Sardinia hanno dato agli isolani una bevanda alcolica, molto simile all’attuale grappa, da consumare in piena libertà. I problemi iniziano, però, nel 1874, quando il Governo Sabaudo impone il proibizionismo in tutto il regno. I piemontesi, infatti, introdussero la legge sui Monopoli di Stato, schiacciando l’economia di molte famiglie sarde che con la produzione di grappa nostrana riuscivano a permettersi il pane. Per poter continuare l’attività, che all’epoca non era fortemente industrializzata, ma permetteva la sussistenza di base di alcune realtà locali, era necessario essere muniti di un’apposita autorizzazione e pagare delle pesantissime tasse sui prodotti venduti. Ma i sardi, proprio come gli americani, non sono un popolo che getta facilmente la spugna. I contadini dell’isola iniziarono a distillare clandestinamente l’acquavite con alambicchi rudimentali, nascondendo le bottiglie sotto terra, nei propri orti, e legando al tappo di sughero un filo di ferro utile a riconoscere la posizione della bottiglia occultata. Un sistema di elusione ed evasione che ha dato il nome a un’eccellenza sarda e italiana, nota a più come “Filu ‘e Ferru”, appunto filo di ferro. Il proibizionismo, in questo caso, non ha portato solo alle note conseguenze della clandestinità e del mercato nero e criminale degli alcolici, ma ha dato vita a un prodotto di qualità che oggi è storia. Non tutto il male vien per nuocere.

    Dalle battaglie radicali alle Nazioni Unite

    Regolamentare per ridurre il danno. Questo è quanto l’ONU consiglia agli Stati. Un concetto che Marco Pannella e il suo entourage radicale avevano già anticipato circa trent’anni fa attraverso un referendum, quello del ’93, sulla depenalizzazione del consumo di sostanze stupefacenti, che portò il 77% degli aventi diritto al voto alle urne, abrogando la galera per i consumatori e segnando un contributo assai decisivo per lo svuotamento delle carceri dell’epoca. Pannella colse una cosa tanto tragica quanto vera: le carceri italiane sono la cosa peggiore della tossicodipendenza e che, per un tossicodipendente, la galera non è la risposta ai suoi mali profondi.

    Oggi, le Nazioni Unite riprendono questo rivoluzionario concetto radicale, basato su un metodo che impegna il cittadino nell’osservare i fenomeni della società, quindi anche la droga, da una prospettiva totalmente diversa. La droga uccide, e su questo non ci sono dubbi, soprattutto quando è proibita, e lo fa attraverso le mafie, i cartelli della droga, attraverso le piccole piazze di spaccio contese con le guerre di mala, e lo fa, principalmente, attraverso le carceri. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per la Droga e il Crimine, su un totale di 3,1 milioni di persone arrestate in tutto il mondo per reati legati alle droghe, il 61% circa è stato imprigionato per il solo possesso. Il 78%, invece, dei 2,5 milioni di individui reclusi per droga, che rappresentano il 20% della popolazione carceraria globale, è stato condannato per spaccio di sostanze stupefacenti. In molte circostanze, però, le condanne sono avvenute per politiche ultra-proibizioniste che prevedevano l’arresto anche in caso di possesso di quantità irrisorie. Da questo ne deriva che, anche attraverso gli studi delle Nazioni Unite, l’approccio punitivo e denigratorio verso il consumatore – considerato non troppi anni fa come un reietto – ha avuto un impatto significativo sui diritti delle persone coinvolte, compromettendone la libertà, la salute e la dignità. Il caso più eclatante, nonché uno dei maggiori disastri umanitari del nostro Paese, è quello del sovraffollamento carcerario e delle sue devastanti conseguenze sulla vita e sulla psiche del detenuto.

    Conclusioni

    Pochi giorni fa un uomo di 41 anni detenuto nel carcere di Santa Maria Maggiore, a Venezia, ha compiuto l’ennesimo gesto tragico, un grido di dolore che segna il 79esimo suicidio nelle nostre celle. L’uomo è stato trovato nel bagno della sua cella, impiccato con una cinta. Parlare di regolamentazione significa parlare di tutela dei diritti umani. In uno Stato come il nostro, dove la punizione e la pena severa sembrano la soluzione ai mali della società – che questa stessa politica genera – la luce in fondo al tunnel sembra sempre più distante. Il proibizionismo ha fallito.

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