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    Il fascismo tra realtà storica e cinematografia

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    Riassumere M – Il figlio del secolo in una frase è un compito facile. Lo si fa con una dichiarazione non presente, se non implicitamente, nella serie: «Io non ho creato il fascismo, l’ho tratto dall’inconscio degli italiani». Dichiarazione attribuita proprio al protagonista, Benito Mussolini.

    Problemi di definizione 

    M, decisamente più della saga di romanzi di Scurati, da cui discende ovviamente la paternità, ha suscitato molta più attenzione nell’opinione pubblica italiana. Sarà perché la saga è iniziata in un contesto politico diverso dall’attuale, sarà perché una serie TV è ben più facilmente digeribile per un pubblico variegato rispetto ai volumi di Scurati (enciclopedici e ben fatti, ma che pur sempre necessitano di tanto tempo libero e mente fresca), sarà perché “la cinematografia è l’arma più forte”, come diceva la scritta propagandistica sotto l’effige del Duce, all’apertura dell’Istituto Luce al Quadraro.

    Sarà perché, a prescindere dal fatto che quella frase in apertura di articolo Mussolini l’abbia davvero pronunciata o meno, il fascismo non ha dei confini concettuali ben precisi. Che è il motivo, in fondo, per cui si parla così tanto di fascismo per indicare fenomeni spesso con caratteristiche diverse tra loro: il franchismo e il nazismo, ad esempio, uno cattolicissimo e l’altro pagano; oppure le juntas latinoamericane e i “sovranismi” attuali, le prime tecniciste e i secondi demagogici.

    Umberto Eco scrisse del «fascismo eterno», detto anche «Ur-Fascismo»: individuò quattordici minimi comuni denominatori di tutte quelle forme che fan sì che alcuni tipi particolari di autoritarismi ricadano sotto il termine-ombrello di fascismo. Un fascismo che, ovviamente, non è inteso in senso puramente storico, quindi come la dottrina mussoliniana e la pratica del governo italiano del Ventennio. Così, per svincolarsi dal fastidioso negazionismo di chi concepisce (certo, con intenti spesso strumentali: i fascisti non esistono, ma mi possono votare perché li copro e insieme li rappresento, pratica senza dottrina, azione senza definizione) solo la versione storiografica.

    Ecco che si ritorna – non ce ne voglia Eco – al fascismo come parto dell’inconscio italiano, con Mussolini come levatrice. Due frasi, dalla serie M, introducono quella che è l’“essenza” sociologica del fascismo (e dei fascismi in senso ampio): «Io sono come le bestie, sento il tempo che arriva» e «Io sono tutto, e il contrario di tutto». Ambedue le pronuncia Mussolini interpretato da Marinelli; sono la rappresentazione perfetta di cosa è stato il fascismo storico.

    Problemi di ricezione

    Non ce ne vogliano storici e filosofi, ma anche uno sceneggiatore riesce a cogliere bene – e in breve – lo spirito del Tempo. Benito Mussolini, giornalista romagnolo, per un po’ anche maestro elementare, socialista e modernista, difensore della tradizione e anticlericale, creatore dello Stato del Vaticano e donnaiolo, marito infedele e padre assente, cultore del controllo, amante carnale e irresponsabile, adoratore del potere e dei suoi lussi con disciplina cameratesca, ispiratore ed organizzatore di un violento movimento di sanguinario e diplomatico amicone delle élites, Duce d’Italia e salvatore della monarchia. Che strana razza di “dottrina” dovrebbe avere quest’uomo?

    Mussolini, comunicatore del nulla e predicatore del tutto: questa è l’immagine storicamente più affidabile del Duce che esce perfettamente dalla serie. Al di là di quest’ultima, infatti, Mussolini è stato il figlio del secolo nel senso che ha fatto della sua persona un mezzo, e come tale è morto; un riempitivo. Per gli arditi, l’ispiratore nelle parole e nella teoria (e una teoria di parole non costituisce certo dottrina) del via libera alla violenza contro chi voleva trasformare il Paese in senso democratico e partecipativo. Per gli industriali, il comodo appaltato della tutela dell’ordine contro gli stessi democratici. Per gli agrari, il capobastone contro chi rialza la testa dopo secoli di sfruttamento. Per parte delle avanguardie artistiche, il simbolo dell’uomo d’azione, che sa usare i mass media e glorifica la guerra come ‘pulizia’ dei popoli.

    Potremmo continuare ancora e ancora: per i cortigiani, per il re, per una grossa fetta delle forze armate e della pubblica sicurezza e della magistratura, per l’alto clero… insomma, Mussolini come figura – non certo come persona: chi tutto ingoia nulla seleziona! – era il sogno proibito di chi temeva che il movimento democratico e partecipativo, all’epoca forte e combattivo, potesse alterare gli equilibri sociali. Mussolini ideò una controrivoluzione permanente e trasversale tra le classi, cosa che a sinistra spesso non è stata compresa: chi aveva potere lo appoggiava per continuare a preservare il proprio rango davanti ai rivoluzionari, ma chi non ne aveva lo appoggiava per cultura, per tradizione, per carrierismo. 

    M, il figlio del Gattopardo

    Mussolini aveva capito – come Giolitti, come tanti altri, con l’aggiunta delle tinte futuriste e demagogiche – che a fare il Gattopardo, in Italia, si può vincere. La sua “dottrina”, e lo stesso fascismo, altro non sono che gli adattamenti via via “aggiustati” ai desideri dei detentori di vecchi poteri (mezzi di produzione, titoli nobiliari, posizioni ufficiali nei corpi dello Stato, finanche il ruolo nella famiglia) senza dimenticare che la sofferenza popolare era comunque tanta. 

    I primi vennero sistemati man mano – con contropartita l’accettazione, difficilmente contrastata, del partito mussoliniano al governo – mentre la seconda venne rigirata verso nemici vecchi e nuovi: socialisti, sindacalisti, anarchici, femministe, omosessuali, comunisti, liberaldemocratici, cattolici impegnati, agenti del caos e del disordine di qualsiasi fattura. Anche camicie nere radicali o fascisti che si erano esposti troppo, come nel caso – mostrato nella serie – rispettivamente dei “dissidenti” delle elezioni del 1924 e dei gestori materiali dell’affaire Matteotti.

    Non è un caso che Mussolini stesso non sia stato così schifato, almeno fino alla metà degli anni Trenta, dai consessi internazionali, così come anche i nazisti o i loro iniziali adulatori, ma di questo ne parleremo un’altra volta.. Il pericolo, all’epoca e ancora tutt’oggi, erano i “sovversivi”, a partire dai bolscevichi – che con l’Unione Sovietica simboleggiavano non solo la creazione di un nuovo tipo di potere, bensì soprattutto, e questo al di là delle considerazioni strettamente storiche, la riuscita effettiva di una rivoluzione dell’ordine sociale, a discapito dei tradizionali detentori dello scettro.

    Se le pretese, che spesso oggi sono il minimo democratico accettato, sembravano troppo alte, il mezzo per zittirle non doveva essere per forza legale. Anche questo carattere del fascismo, il segreto di Pulcinella delle teorie mussoliniane, non è una novità: il Duce fu, in definitiva, l’ideatore del freno d’emergenza del treno del progresso sociale. Fare gli interessi antichi ma con attori nuovi: le masse e i miliziani. «Se vogliamo che tutto rimanga così com’è, è necessario che tutto cambi»: il monito gattopardesco, legato perlopiù ai nobili ottocenteschi o alla classe politica repubblicana, è in realtà la perfetta rappresentazione del fascismo.

    Problemi di accettazione

    Ovviamente, queste caratteristiche essenziali del fascismo – che sono anche il carattere-spia per quanti vogliano usare una definizione ampia del termine, più politologica che storiografica – necessitano di una terapia accettativa da parte del pubblico italiano.

    Mussolini come Duce comporta un passaggio qualitativo nella percezione di un soggetto umano: non più una persona, coi suoi limiti e le sue paure, non certo qualcuno che abbia ripensamenti, debolezze, difficoltà emotive e relazionali. Non un essere umano a tutto tondo, insomma. L’umano dal nome Benito Mussolini diventa la statua regalatagli dall’amante (e sostenitrice) più importante, Margherita Sarfatti; il Duce, ferreo, impassibile, ineluttabile, onnipotente e infallibile. O almeno così deve apparire.

    La serie M riesce perfettamente a mostrare questa dualità. Parte mostrando i cadaveri in piazzale Loreto, segno di come quella del Duce non sia stata che una costruzione illusoria e teatrale, mentre l’uomo di spettacolo giace a terra sanguinante e defunto. Mostra il ruolo delle donne: dalla moglie, l’austera quanto tradita donna Rachele Guidi, alle tante amanti provvisorie; dalla centralissima Sarfatti – che aprì all’ambizioso socialista romagnolo le porte degli impauriti salotti borghesi benpensanti – a Ida Dalser, chiusa in manicomio fino alla morte col figlio non riconosciuto da Mussolini, per non ledere l’imago virginis del Duce. 

    Tutte donne che, in fin dei conti, hanno capito la lezione: tra i detentori del potere, il primo detentore è il maschio di famiglia; poi viene il resto, da cui anche la più importante presenza politica femminile dev’essere esclusa, resa al massimo ancillare.

    Si evince il ruolo, non ancillare bensì preponderante, della rete di borghesi e altri esponenti dell’élite che videro nel fascismo il comodo metodo di sopravvivenza sociale. Quando, dopo il delitto Matteotti, queste classi dirigenti sembrano vacillare nel supporto, diventa chiaro come il Duce abbia ormai rimodellato le relazioni di potere: invece di rompere il compromesso, queste stesse classi preferiranno tapparsi il naso per un po’ – sommo sacrificio!

    Mostra il volto reale del fascismo, quello squadrista della base e quello doppiogiochista dei vertici. Mostra chi ci ha goduto, chi ha sofferto, chi è stato oppresso e chi è rimasto indifferente. E il protagonista si rivolge – mossa geniale – direttamente allo spettatore, lo coinvolge, lo intrattiene. Si confessa, si sfoga, si racconta allo spettatore. È questa, d’altronde, la base della terapia analitica: devi fidarti tanto del terapeuta, persino a rischio di innamorartene, per poter proseguire nel percorso e metterti nelle sue mani.

    Conclusione

    Disintossicarsi dal fascismo significa osservarlo negli occhi. Per questa operazione non tutti gli italiani sono pronti, anche quelli che non adorano il Duce. Se il fascismo è stato tirato fuori dall’inconscio, è lì che bisogna estrapolarne le radici. Bisogna riconoscere che non è stata una dottrina del male e che Mussolini non era un pazzo; bisogna guardarsi allo specchio e demitizzare tutto, rimettere in gioco anche i privilegi più piccoli, quelli che hanno reso trasversalmente accettabile le camicie nere al governo. 

    Non è difficile sentir dire, a proposito della serie, che tratta Mussolini a caricatura, oppure che non è storicamente accurata. Per la seconda obiezione, la risposta è facile: non è un documentario, l’accuratezza è data più nel senso del fascismo come strumentalizzazione politica dell’inconscio (l’ho ripetuto tante volte, però è importante, altrimenti il ragionamento non carbura) rispetto alla precisione nella sceneggiatura.

    Per la prima obiezione, invece, la risposta sta proprio nell’accettazione della realtà. La realtà che vede Mussolini come un uomo di spettacolo, attorniato da uomini di guerra, colto da uomini d’affari e sopportato/supportato da uomini di governo. Il ritmo splatter e colorito della serie serve da una parte per tenere alta l’attenzione, dall’altra come espediente per sottolineare fin dentro ai bisogni carnali la demitizzazione del Duce, del fascismo, dei rapporti di potere tutti. Prima di criticare per questi motivi la serie, occorre guardarsi allo specchio chiedendosi: da quale parte della barricata siamo? O, forse-forse, siamo proprio noi la barricata?

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