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    Il PNRR non funziona perché pensato per un’Italia che non esiste

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    Sperperate, risicate, cronicamente insufficienti: le finanze italiane costituiscono anno dopo anno elemento di sofferenza, ma non di riflessione. Se poi aggiungiamo il fatto che la gestione delle suddette voci di entrata e di spesa è sotto certi aspetti materia concorrente, si fanno allora strada visuali letteralmente sconosciute allo scibile umano. Le stesse che, intersecandosi con l’essenza della pubblica amministrazione, fanno capolino in un nulla di fatto che tanto disturba, ma che in realtà consente anche queste stesse righe. In parole povere, un biglietto da visita indicativo dell’inettitudine. 

    E se quanto detto fino a qui stupisce, quanto segue intimorisce: per ironia della sorte, il Belpaese riceve fondi che non spende, o che forse non sa come spendere. Delle motivazioni sottese a quest’ultimo fenomeno in parte abbiamo già parlato, ma andiamo con ordine; esiste molto di più.

    Investimenti tra passato e presente 

    Alla fine degli anni ’40, l’Europa intera, devastata dal secondo conflitto mondiale, rialzò la testa grazie allo stanziamento del Piano Marshall, un progetto di ricostruzione su larga scala promosso dagli Stati Uniti con cui ‘rianimare’ non solo le singole economie nazionali, ma anche le speranze e le prospettive della popolazione civile. Nel nostro Paese, i primi effetti visibili del Piano coincisero con l’avvento del boom economico, una fase di crescita e prosperità messa a terra grazie alla leadership di Alcide de Gasperi che, in qualità di Presidente del Consiglio, gestì l’esecuzione del Piano stesso. 

    A quasi ottant’anni di distanza, la storia sembra ripetersi, ma questa volta con molta meno fortuna. Anzitutto, i fondi di cui oggi beneficiamo sopraggiungono dal Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza (PNRR), il programma stilato dal Governo italiano per gestire nell’arco temporale 2021-2026 le riforme e gli investimenti connessi al Next Generation EU, un pacchetto da 750 miliardi di euro pensato dalla Commissione europea per contrastare le sfide post-pandemiche e supportare così la ripresa degli Stati membri dell’Unione. 

    Che cosa prevede il Pnrr

    Sviluppato attorno a tre assi strategici condivisi a livello europeo – digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica e inclusione sociale – il Piano intende contribuire al superamento delle difficoltà strutturali dell’economia italiana, riducendo al contempo divari decennali quali quelli territoriali, generazionali e di genere. A partire dalle 6 missioni previste originariamente per un ammontare di 191,5 miliardi di euro, in seguito alla riprogrammazione, avvenuta l’8 dicembre 2023, è stata aggiunta una nuova missione 7 dedicata agli obiettivi del REPowerEU; si è dunque passati a 194,4 miliardi di euro, con un aumento di 2,9 miliardi rispetto al PNRR originario. Di quest’ultimo ammontare fanno parte 122,6 miliardi che sono prestiti  a basso tasso di interesse, e 71,8 miliardi che sono, invece, sovvenzioni a fondo perduto. 

    L’implicito sottostante ad una tale concessione consiste nella determinazione di una serie di obiettivi a medio – lungo termine da conseguire entro limiti prestabiliti, soddisfatti i quali l’Unione europea vara su base semestrale tranches progressive di prestiti, a patto che almeno il 40% delle risorse complessive sia destinato al Sud Italia. Seguono a ruota altre due percentuali “vincolate”: il 37% destinato agli interventi nell’ambito della transizione ecologica e il 25% a quelli inerenti la transizione digitale

    Allo stato, la Commissione europea ha erogato all’Italia 122,2 miliardi di euro; l’ultima rata ricevuta, la sesta, è stata versata il 23 dicembre 2024. Va precisato che il nostro Paese ha ricevuto lo stanziamento maggiore dei fondi messi a disposizione dal Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza, la componente fondante del Next Generation EU; a questi vanno comunque sommati altri 30,6 miliardi di euro finanziati attraverso il Fondo complementare istituito con il Decreto legge n.59 del 6 maggio 2021.  

    L’inizio della fine

    Chiunque, leggendo le cifre di cui sopra, si aspetterebbe una messa a terra ineccepibile. Ad oggi, le cose non stanno effettivamente così, ma a ben guardare i problemi che tendiamo a sottolineare in blu sono cominciati molto prima della fase di implementazione. Questo perché il Piano, transitando per mezzo di ben tre Governi differenti (Conte II, Draghi e Meloni), è stato modificato tre volte in tre anni, con palpabili conseguenze sul piano della credibilità internazionale. Ed è così che sono sorti dubbi circa l’efficienza di quanti preposti alla sua gestione.  

    Non meno importanti sono state le ripercussioni sul fronte economico: basti pensare che nel luglio 2023 il Governo Meloni ha modificato 144 obiettivi su 349 totali con lo spostamento di progetti per 15,9 miliardi di euro, che usciranno dal PNRR. Più che evidenti i danni scaturiti da quest’ultima riscrittura, considerando che i progetti tagliati sul nascere riguardano interventi sociali e ambientali tra cui l’efficienza energetica dei Comuni, la riqualificazione urbana e il dissesto idrogeologico. Insomma, date queste premesse l’idea di pareggiare i risultati ottenuti con il Piano Marshall pare un miraggio.

    Tra ritardi e progetti mai partiti

    Ciò che comincia male non può che proseguire peggio: basandosi sulle elaborazioni di Openpolis aggiornate al 13 dicembre 2024 sulla base dei dati forniti da Italia Domani, si apprende come l’Italia abbia finora speso meno di un terzo del totale delle risorse, 58,6 miliardi su 194,4 miliardi di euro. Attenzione perché quest’ultimo ammontare non è affatto realistico: dal totale apparente vanno sottratti 27,3 miliardi di euro, di cui 13,9 spesi per il Superbonus e 13,4 per altri crediti d’imposta, tra cui quelli per l’ammodernamento tecnologico della aziende. Segue di qui il fatto che tra il 2025 e il 2026 l’Italia sarà chiamata ad impiegare più di 135 miliardi di euro, mentre nei quattro anni ormai trascorsi ne ha spesi poco più di 58, in parte anche grazie a misure già in essere a prescindere dal Piano. 

    Va comunque considerato che molti progetti legati al PNRR risultano fermi, completati a metà, oppure mai partiti. Facciamo per esempio riferimento alle infrastrutture: secondo la Corte dei Conti, solo il 4% delle iniziative in ambito ferroviario è giunta al collaudo. Eppure sarebbero numerosi i fronti rispetto a cui intervenire: tralasciando la rete siciliana e quella sarda, il cui grado di precarietà è cosa da tempo nota, il versante tirrenico centro-settentrionale e tirrenico meridionale, il versante ligure e linea Bologna-Venezia-Trieste/Udine. 

    Passiamo poi alla salute, missione del PNRR costretta anch’essa a mettersi in lista d’attesa: in questo caso la percentuale di spesa effettiva è irrisoria, appena 2,3 miliardi di euro su 15,6 disponibili. Lo stesso vale per la transizione ecologica, ambito che ha speso l’8% dei fondi. Il baratro viene però toccato con il capitolo relativo alla pubblica amministrazione: appena 37,8 milioni di euro spesi. 

    I problemi e le mancate soluzioni

    Se andiamo ad analizzare le cause sottese al mancato utilizzo delle risorse, si scopre che i problemi sono sia strutturali che puntuali, legati ai singoli progetti. Vediamo di capire meglio la questione: esattamente come la rendicontazione delle spese pubbliche, anche il PNRR in fin dei conti è materia concorrente, dal momento che annovera la presenza di progetti sia nazionali, la cui responsabilità ricade sui Ministeri, che circostanziali, gestiti dagli enti locali. Ciò fa sì che il Piano, nella fase di realizzazione, vada a cozzare con la lentezza cronica della pubblica amministrazione, la cui spirale finisce per risucchiare la gestione delle gare d’appalto indette per selezionare le imprese cui affidare i lavori. A ciò va poi sommata la mancanza di figure professionali altamente qualificate nei singoli settori di riferimento, nonché la scarsa preparazione di quanti preposti alla gestione dei bandi. 

    Insomma, il PNRR non funziona perché idealtipico, pensato per un’Italia che ancora non esiste: rapida, efficiente, altamente digitalizzata. È compito del Governo e dell’attuale classe dirigente smontare questa triste, ma realistica, consapevolezza.

    Problemi di trasparenza

    Dati i motivi di cui sopra, ciò che avrebbe dovuto rilanciare le prospettive sociali, ha finito in realtà per alimentare criticità piuttosto annose: lo sperpero di denaro pubblico, la noncuranza ravvisabile in ogni dove, e non solo nei film di Checco Zalone, finanche i luoghi comuni che vedono la politica pregna esclusivamente di connotazioni negative. 

    A prima vista l’impressione potrebbe essere quella di un indecoroso piagnisteo sui tempi andati, decenni apparentemente vicini ma in realtà lontani, a tratti persino incomparabili con l’odierna quotidianità. Se state pensando questo, no non è affatto così: la questione non è di carattere storico – piano rispetto al quale, quanto a manchevolezze e soprusi, i contemporanei non hanno granché da invidiare agli avi – ma piuttosto di ordine etico. Il motivo è presto detto: a prescindere dalla cromia politica, parlare di trasparenza in relazione alla cosa pubblica è un fatto piuttosto ardito, dal momento che ha sempre inspiegabilmente causato non pochi problemi. 

    Tutto questo mentre chi sta dall’altra parte della barricata non solo non manca di rimpinguare le casse statali con tributi e tasse, bensì sottopone all’attenzione del legislatore una lista chilometrica di problemi rimasti insoluti.

    A cura di Fiammetta Freggiaro – Vicedirettrice editoriale vicaria

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