Fari e materialismo
Ernst Bloch amava citare un proverbio cinese: «Alla base del faro non c’è luce». In altre parole, nel presente non abbiamo certezze sul futuro; serve raggiungere la fine della scala per essere illuminati dalla lampada.
Un personaggio curioso, Bloch. Filosofo marxista, che ha finito per ispirare, in modo involontario, una corrente protestante di pensiero religioso: la Teologia della speranza. Perché va bene la rivoluzione, ma con quale strumento mentale affrontarla? Specialmente nel contesto della sua epoca, tra due guerre mondiali e l’ascesa del consumismo.
Ecco, dunque, il suo “principio speranza”. Scriveva nel libro omonimo:
«Il lavoro della speranza non è rinunciatario, perché di per sé desidera avere successo invece di fallire. Lo sperare, superiore alla paura, non è passivo come quest’ultima emozione, né, tantomeno, bloccato nel nulla. L’affetto della speranza si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di indagare ciò che li spinge verso uno scopo e quali alleati esterni possano trovare. Il lavoro di questo affetto richiede uomini pronti a gettarsi attivamente nel nuovo che sta prendendo forma e al quale essi stessi appartengono.»
Non tanto rivoluzione d’Ottobre, quanto un “materialismo emotivo” – se si può usare questa espressione. È così che, nell’epoca della socialdemocrazia prima e del neoliberismo poi, Bloch ha trovato un seguito maggiore tra i cristiani che tra i politici.
Dal principio speranza al principio Speranza
Sulla scia di Bloch, se i filosofi accademici ce lo permettono, proponiamo una parodia: il principio Speranza. Potremmo definirlo come quel principio pratico (più che teorico) per cui, nella Seconda Repubblica, data una forza progressista dominante X, le altre finiscono per orbitare intorno ad essa in modo ellittico, alternando periodi di distacco critico a momenti di totale subordinazione.
X è stato il PDS, La Margherita, il PD fino al 2017, poi il M5S fino al 2022, e ora di nuovo il PD. (Sembra il rischio di finire tutti democristiani, ma questa è un’altra discussione.) Il fronte progressista non coincide con il “centrosinistra” né si limita a una sola tradizione politica. Include riformisti, moderati, (post)comunisti, “nativi democratici”, “populisti”, giustizialisti e aspiranti liberali seriosi. Più che in altri periodi o Paesi, il fronte progressista italiano della Seconda Repubblica è variegato in modo disordinato.
Non è necessariamente un difetto. Se ben gestita, questa pluralità arricchisce l’alternativa e crea – come già accaduto – spazi che sfuggono al bipolarismo e alla convergenza al centro. Spazi di sperimentazione, di decodifica delle nuove istanze sociali, di maggiore libertà propositiva, che in un duopolio verrebbero sacrificati sull’altare del mero risultato elettorale.
Tuttavia, su questi spazi pende la spada di Damocle del principio Speranza. Abbiamo la cattiva abitudine di trattare le alternative come esperimenti infantili, destinati a rientrare presto sotto l’ombrello della forza dominante. Un vero peccato, considerando che i “grandi” in trent’anni non hanno fatto molto, se non crogiolarsi nell’autoreferenzialità.
Il passaggio dal principio di Bloch a quello del ministro Roberto (che non l’ha inventato, ma da cui prende il nome) è un’evoluzione dall’ottimismo trasformativo a una visione “gattopardesca”, in cui il cambiamento avviene solo quando ci si compromette. Non è disfattismo, ma nemmeno abbastanza per soddisfare le richieste della “base” progressista.
Al momento, due questioni sono cruciali: 1) i risultati dell’Assemblea costituente del MoVimento e 2) il posizionamento del PD su lavoro e politica internazionale. Se il principio Speranza si farà valere, tutto questo sarà in gioco. Potrebbe, all’ultimo, prevalere il principio speranza. E allora si aprirebbero scenari inesplorati.
PS: La Terza Repubblica, alla luce del principio Speranza, è davvero esistente o solo una fase dell’ellissi? Ai posteri l’ardua sentenza…