È oggi nostro ospite l’on. Massimiliano Smeriglio, politico e scrittore, professore associato della facoltà di scienze della formazione primaria e candidato con Alleanza Verdi-Sinistra alle prossime elezioni europee.
Le elezioni europee sono sempre più vicine: cosa l’ha spinta a candidarsi con Alleanza Verdi-Sinistra e quale potrebbe essere secondo lei il possibile scenario di queste elezioni?
Partendo da me io sono stato eletto da indipendente nelle liste del PD nel 2019, sono sempre rimasto una persona indipendente, fedele alla propria biografia politica, un uomo di sinistra, ambientalista e pacifista. Gli ultimi due anni sono stati caratterizzati da un’escalation militare, con uno spostamento dell’asse politico europeo verso destra: mi sono trovato così a votare sistematicamente in dissenso dalla delegazione burocratica di appartenenza. Alla fine di un periodo piuttosto lungo con una guerra all’ordine del giorno, ho preso atto che il mio profilo non era più compatibile con quello della delegazione italiana del partito democratico. Da lì sono uscito e ho costruito una nuova prospettiva con una piattaforma politico-elettorale come quella dell’alleanza Verdi-Sinistra, più vicina alle questioni della giustizia climatica e della giustizia sociale. Per quanto riguarda l’elettorato è molto probabile che, purtroppo, voterà soltanto una parte di esso, forse il 55%: questo è un dato negativo che sta diventando sempre più strutturale, una parte della popolazione non si reca più alle urne perché non le ritiene socialmente utili. È un tema serio quello dello svuotamento del sistema democratico e dei meccanismi di democrazia sostanziale. In più, c’è “un vento di destra” che spira in tutto il mondo occidentale e in tutta Europa, un vento che cercherà di fare la propria partita anche alle europee.
In seguito alle parole del generale Vannacci, candidato recentemente con la Lega, riguardo le classi differenziali per i bambini diversamente abili, lei ha affermato che questo non è che un’altra manifestazione del pensiero di estrema destra. Quanto effettivamente potrebbe giovare ai fini dell’apprendimento dello studente diversamente abile l’introduzione di classi separate?
A chi esprime delle diversità assolutamente niente, è utile a chi cerca di costruire sistematicamente il capro espiratorio, il nemico. La destra lo fa in termini sistematici, lo fa contro: i migranti, chi ha volontà di espressione sentimentale/sessuale fluida, chi si impegna con le questioni climatiche e in questo caso lo fa indicando un nuovo bersaglio, che sono appunto tutte le diverse abilità presenti nel nostro sistema scolastico. Noi spesso non ci rendiamo conto che siamo un paese molto evoluto: di fatto, le classi differenziate esistono in diversi paesi europei. Vanno combattute, perché non si isola questo tipo di patologia o di comportamento, ma si risolve, anzi, come ci insegna la migliore letteratura, in uno scambio aperto e in spazi plurali, dove ognuno può apprendere dalle attitudini degli altri. Vannacci fa “il chiacchierone” oltre che il generale, senza avere alcuna nozione di pedagogia o di cultura dell’integrazione. Il tema è come è organizzato il sistema classe e il sistema scolastico, quanti soldi investiamo, quante professionalità adeguate mettiamo nel lavoro e quanto investiamo sui team del sistema scolastico. Se tu costruisci una scuola robusta, in cui ci sono tante personalità, non si rallenta nessuno: l’apprendimento non è una corsa ad ostacoli.
È molto discussa la candidatura di Ilaria Salis con Alleanza Verdi Sinistra, in quanto lei ha affermato che c’è un garantismo a corrente alternata e che il governo italiano avrebbe dovuto risolvere diversamente la questione. Sente quindi che il garantismo in Italia viene visto come un qualcosa di “fazioso”?
Il garantismo è una grande cultura politica liberale, che, nel nostro paese, per molti decenni è stata trasversale ad ambienti più conservatori, fino ai radicali e alla sinistra. Nel tempo, complice una certa torsione giustizialista della sinistra, il garantismo è “andato in difficoltà”. La destra non è garantista, lo è solo con chi ha un milione di euro in banca: per tutti gli altri, per chi va a un rave, per chi si fa una canna o per chi mette in campo conflitti e mobilitazioni, la risposta della destra è sempre la galera. Non è garantismo, è difendere i privilegi di casta, come sta avvenendo in questo caso nella vicenda del presidente della regione Liguria, Toti.
La vicenda di Ilaria è del tutto opposta: noi stiamo parlando della candidatura di Ilaria Salis perché, di fronte ad una carcerazione dura ed umiliante, di fronte ad un Paese che sistematicamente viola i diritti civili, umani e quelli dei cittadini e cittadine detenute, il governo italiano non ha mosso un dito per un anno e mezzo. Dunque, se avesse mosso un dito, Ilaria Salis ora sarebbe in Italia, avrebbe diritto ad un giusto processo – cosa che vuole, non vuole scappare dal processo – e saremmo tutti più felici e contenti. Ora invece siamo tutti “ostaggi di Orban”: il governo italiano non muove un dito e noi siamo costretti ad accendere una luce permanente, la candidatura significa far rimanere accesa la luce sui mezzi di comunicazione di massa e una denuncia su quello che il governo di Orban è. È una pratica abbastanza barbarica, come confermato dal fatto che questo soggetto è un antifascista, un indifeso e una donna in particolare: ciò aumenta a dismisura tutte le azioni di sciacallaggio e di “squadrismo mediatico” che sono in corso. Noi dobbiamo assolutamente rigettare questo terreno e tutelare la figura di Ilaria Salis, cosa che, con troppa disinvoltura, molti esponenti anche governativi non fanno, senza rendersi conto del danno che procurano all’immagine del nostro Paese nel mondo.
Nel suo recente romanzo dal titolo: “Mio padre non mi ha insegnato niente”, il protagonista, ossia Emme, è un ragazzo che vive nella Roma degli anni ’70, dove, attraverso la politica, riuscirà a riscattarsi e trovare la sua strada. Cosa l’ha spinta a scrivere questo libro e qual è secondo lei l’insegnamento che dovrebbero trarne anche le future generazioni?
È un testo che mi riguarda da vicino, ha a che fare con una parte consistente della mia vita, soprattutto prima della nascita e immediatamente dopo nell’adolescenza. Quando scrivi un romanzo non c’è un lieto fine, non c’è un obbiettivo pedagogico, quello riguarda altri strumenti e altre modalità d’espressione. Sicuramente c’è un tema che riguarda l’idea che ci si salva insieme agli altri, o per il mezzo degli altri, e che, per salvarsi, bisogna sviluppare una consapevolezza di sé e “disintossicarsi” dal rancore e dall’odio, che è una malattia che uccide. È un inno alla vita combattiva, alla vita insieme agli altri, e anche di fronte agli sfregi del destino e alle cose estremamente negative che la vita ci ha portato in dote, avere la capacità di non diventare come quelli che hanno determinato questa forma di sofferenza e di infelicità. Non è un riscatto di carattere sociale, ma è un riscatto rispetto alla consapevolezza emotiva del protagonista, che scopre nel tempo altri linguaggi, altre modalità con cui gestire le relazioni fuori dalla mascolinità tossica, dalla competitività tra esseri umani.
È un romanzo duro, di strada, di vita, ed è proprio questo quello che dobbiamo ricavarne.
In un recente intervento in Commissione, ha parlato di un ponte culturale verso le persone; quindi, il come noi smuoviamo le coscienze e di come la leadership occidentale è di fatto una leadership militare. Secondo lei oggi quanto la questione coloniale si affaccia sullo scenario attuale?
Non è una mia invenzione: l’Occidente ha espresso negli ultimi vent’anni una leadership fondata non sul consenso, o sul “soft-power”, ma sulla forza militare. Quando tu impegni tutte le tue relazioni e le vincoli a meccanismi di rapporti di forza, non stai costruendo un mondo migliore, disarmato e pronto a cooperare. L’Europa dovrebbe essere quel soggetto capace di costruire un altro scenario: di pace, di negoziato, di diplomazia al lavoro e non solo di riarmo. Questa cosa ancora non sta accadendo, ed è un peccato, ma non bisogna mollare, bisogna insistere e provare a portare a Bruxelles personalità pacifiste che credono nella pace come costruzione materiale basata sul negoziato tra i nemici. Su questo l’Europa è mancata, e se rimane solo la forza militare, alla fine si produrranno meccanismi di odio in milioni di persone, perché noi occidentali siamo una minoranza, e quando agiamo in questa maniera, agiamo anche torsioni di carattere coloniale. Può essere letta anche con la chiave di colonialismo la maniera in cui Israele sta umiliando il popolo della Palestina a Gaza, in Cis-Giordania e a Gerusalemme est. L’approccio del suprematismo e del colonialismo è ancora presente nelle politiche occidentali, e questo crea una distanza, una diffidenza, con i popoli di altre parti del mondo che stanno crescendo e che hanno curve democratiche interessanti.