Tanto tuonò che alla fine (non) piovve: il “lieto fine” sui dazi sopraggiunto nel tanto atteso bilaterale tra Donald Trump e Ursula von der Leyen, tenutosi domenica 27 luglio nel golf club di Turnberry, in Scozia, non avrebbe potuto essere differente.
Fin dai giorni immediatamente successivi l’inoltro della missiva a lei rivolta, l’Unione europea ha – benché tra le righe – confidato nel fatto che, superata una prima fase di furia mista ad agonia, Washington facesse un passo indietro. Così è stato, non prima di aver celebrato la propria preminenza sulla scena globale.
La tanto agognata intesa sui dazi
A pochi giorni dall’entrata in vigore delle tariffe applicate a tutte le importazioni provenienti dall’Unione europea, il presidente Donald Trump è volato in Scozia per incontrare la Presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, nel golf club di Turnberry. A conti fatti, l’obiettivo sotteso al bilaterale giocava a favore di entrambi i versanti dell’Atlantico: siglare un’intesa per scongiurare importanti ritorsioni economiche e commerciali.
Nei giorni precedenti l’incontro, Bruxelles si era fortemente sbilanciata assicurando un’intesa “a portata di mano”. Così non è stato per Donald Trump, che nelle prime ore del pomeriggio ha voluto mettere a freno gli entusiasmi aleggianti attorno all’accordo. Riprendendo le sue stesse parole, condivise anche da von der Leyen, le probabilità di esito positivo erano del 50%.
Persino in apertura del vertice, durante un punto stampa durato circa venti minuti, Trump ha menzionato il presunto sbilanciamento nei rapporti bilaterali: “Ursula ha fatto un gran lavoro per l’Ue, non per noi”. Molto meno impattante il contributo di von der Leyen, che dal canto suo ha bollato l’intesa commerciale – una volta raggiunta – come “la più grande di sempre”. Alla fine, missione compiuta: al cospetto del Commissario Ue al Commercio Maros Sefcovic, del Segretario statunitense al Commercio Howard Lutnick e del capo negoziatore Jamieson Greer, Bruxelles e Washington hanno raggiunto un accordo sui dazi, fissati ora al 15%.
Che cosa prevede l’accordo
Nel dettaglio, quanto accordato in suolo scozzese avrà impatti tangibili sulle principali merci europee esportate oltreoceano. Esclusi dall’intesa acciaio e alluminio, per i quali le tariffe applicate rimarranno al 50%. Enigmatico il destino riguardante il settore farmaceutico – che a detta di Trump deve rimanere di competenza statunitense per evitare posizioni di sudditanza rispetto ad altri Paesi – e i semiconduttori: entrambi, secondo il presidente Trump, saranno soggetti a tariffe settoriali specifiche.
Sul piatto della bilancia, tre contropartite dai connotati fortemente politici, quantomeno per l’Unione europea: non solo investimenti pari a 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti, ma anche l’acquisto di armamenti e forniture energetiche statunitensi per un valore di 750 miliardi di dollari e, parimenti, la rinuncia alla guerra alle Big Tech, sanzionabili tramite la digital tax.
Tre importanti tasselli che, uniti all’impegno ad aumentare la spesa per la difesa e la sicurezza al 5% del PIL, collimano perfettamente con le intenzioni statunitensi: ribaltare i presunti squilibri in essere e “riprendersi” quanto legittimamente spettante. Visto il risultato raggiunto, trionfante il tono assunto dal presidente Trump, che ha parlato di un accordo “imponente”. A fargli eco von der Leyen, secondo cui l’intesa ridarà stabilità alla relazione tra le parti.
La relazione UE-USA
Lungi dal passare in sordina, in virtù della cooperazione di lungo corso tra le due sponde dell’Atlantico, l’accordo tra Stati Uniti e Unione europea non poteva assumere una veste differente: entrambi gli attori, in misure eterogenee, devono buona parte della propria sussistenza alla presenza del rispettivo interlocutore all’interno dei propri mercati.
Un legame a doppio filo da cui non si può prescindere e di cui lo stesso Trump, citando i progressi compiuti nel dialogo con Bruxelles, si è implicitamente detto consapevole. Tutti aspetti noti anche prima dell’inoltro della missiva sui dazi al 30%.
Il braccio di ferro di Trump
Sulla scorta di quanto detto finora, l’interrogativo a questo punto è uno: indirizzandosi all’Unione europea, è effettivamente esistita una logica nelle intenzioni del presidente Trump? Un indizio di risposta può essere riscontrato nell’impostazione delle stesse missive inoltrate dalla presidenza statunitense: in ordine sparso, accompagnate da intervalli temporali di volta in volta variabili.
In estrema sintesi, più che una guerra commerciale semanticamente e concretamente tale, un’occasione per occupare la scena globale e mostrare ancora una volta la propria preminenza. Con buona probabilità, un bisogno di protagonismo messo a terra con profitto.
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