Il Presidente statunitense Donald Trump ha annunciato che “Israele ha accettato le condizioni necessarie per finalizzare” una tregua di 60 giorni nella Striscia di Gaza. Il tycoon ha spiegato che i suoi rappresentanti hanno avuto un “lungo e produttivo incontro” con i diplomatici israeliani e che, durante il cessate il fuoco, si lavorerà con tutte le parti per mettere un punto definitivo a tutte le ostilità. Ha poi aggiunto che Qatar e Egitto consegneranno a Hamas “la proposta finale” di accordo, auspicando che venga accettata “per il bene del Medio Oriente”. Hamas ha fatto sapere, tramite il portavoce Taher al-Nunu, di essere “pronto e seriamente intenzionato a raggiungere un accordo”, ma ha subito precisato che qualsiasi tregua deve portare alla “fine completa della guerra”.
Condizioni dell’accordo e trattative in corso
Stando a fonti israeliane, l’ultima bozza di tregua prevede un cessate il fuoco di 60 giorni accompagnato da un ritiro parziale delle truppe da Gaza e un massiccio aumento degli aiuti umanitari alla Striscia. Stati Uniti, Qatar ed Egitto garantirebbero colloqui futuri per l’eventuale fine della guerra, ma Israele non si impegnerebbe ad accordarsi su tale punto. Resta da definire il numero di ostaggi israeliani da rilasciare: le proposte precedenti includevano lo scambio di circa dieci persone, mentre Hamas aveva offerto la liberazione degli ultimi 50 prigionieri (meno della metà dei quali ancora in vita) in cambio del ritiro completo delle truppe israeliane e della fine definitiva delle ostilità.
Nel corso di oltre un anno e mezzo di ostilità tra Israele e Hamas, le intese per cessate il fuoco sono sempre naufragate proprio sul tema del termine definitivo del conflitto: Hamas ha ripetutamente chiesto che qualsiasi tregua fosse parte di negoziati concreti per la cessazione permanente dei raid e dei combattimenti, mentre le autorità israeliane hanno finora accettato di fermarsi solo in cambio della resa incondizionata del nemico. In questo quadro le pressioni internazionali, specie quelle avanzate dagli Stati Uniti, giocheranno un ruolo fondamentale per mettere fine alle ostilità.
Pressioni internazionali e criticità emerse
L’ultimo annuncio di Trump, suonato quasi come un ultimatum, ha messo pressione a Netanyahu, invitandolo a chiudere un accordo entro pochi giorni. Hamas ha subito ribadito che “l’intesa deve portare alla fine della guerra”, sollevando dubbi sul fatto che la proposta corrente possa tradursi in una tregua effettiva.
Allo stesso tempo, anche all’interno del governo israeliano, non manca chi vuole affossare l’intesa. La stampa locale riferisce che i due ministri di ultradestra Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich hanno discusso come ostacolare il piano: secondo alcune fonti, i ministri si sono detti convinti che “la vittoria a Gaza è troppo importante e la vita degli ostaggi troppo preziosa per trasformarla in un gioco mediatico”; i falchi israeliani non intendono concedere alcun margine a un compromesso che non preveda la resa di Hamas.
Le criticità umanitarie
Sul piano umanitario, la situazione rimane drammatica. L’ONU denuncia centinaia di morti civili al mese e la totale devastazione dei servizi essenziali a Gaza. Il vice-segretario generale dell’ONU per il Medio Oriente ha descritto come “insopportabile” il livello di sofferenza umana, segnalando che gli attacchi dell’esercito israeliano hanno prodotto in media 82 vittime civili al giorno; di qui la necessità di un’inchiesta sulle uccisioni di civili in fila per il cibo.
Anche il sistema stesso di assistenza è sotto accusa: oltre 130 ong internazionali – tra cui Oxfam, Save the Children, Amnesty – hanno chiesto di ripristinare l’aiuto sotto il coordinamento ONU, smantellando l’attuale meccanismo israeliano di distribuzione dei viveri, lo stesso per cui i civili palestinesi si trovano a scegliere se morire di fame o rischiare di essere colpiti mentre cercano cibo.
Oltre la tregua: tra illusione di pace e responsabilità degli attori geopolitici
La possibilità di una tregua a Gaza non è che lo specchio deformato di una pace che continua a essere rinviata, tra retoriche muscolari e pressioni esterne. Una tregua senza un vero progetto politico di lungo periodo, che ignora le cause profonde del conflitto, rischia di essere solo una pausa della violenza, utile più agli equilibri internazionali che alla popolazione civile. La comunità internazionale, inclusa l’Unione Europea, continua a oscillare tra l’appello formale al diritto internazionale e la subordinazione agli equilibri geopolitici contingenti.
I prossimi giorni saranno decisivi ma, senza una chiara volontà politica e la coesione di tutti gli attori in gioco, l’accordo – se privo di una visione a lungo termine – rischia di diventare l’ennesimo intermezzo tra due atti della stessa tragedia. Il rischio che ne consegue è un conflitto che, nei prossimi anni, potrebbe continuare a nutrirsi di asimmetrie storiche, cinismo diplomatico e calcoli elettorali.
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