Il celebre conduttore Jimmy Kimmel è ritornato in tv martedì 23 settembre, dopo la sospensione ‘a tempo indeterminato’ del suo programma late night show dal titolo Jimmy Kimmel live, reo di aver fatto delle battute su Maga e sul recente omicidio dell’influencer conservatore Charlie Kirk.
A comunicare il ripristino dello show è stata la rete televisiva Abc (Walt Disney) che ha dichiarato: “Mercoledì scorso abbiamo deciso di sospendere la produzione dello show per evitare di infiammare ulteriormente una situazione di tensione in un momento così carico di emozioni per il nostro paese. È una decisione che abbiamo preso perché riteniamo che alcuni commenti siano inopportuni e quindi insensibili. Abbiamo trascorso gli ultimi giorni a confrontarci con Jimmy e, dopo queste conversazioni, decidiamo di riprendere lo show martedì.”
Le reazioni alla sospensione
Tuttavia, la ripartenza non è stata limpida poiché Sinclair, conglomerato di telecomunicazioni che gestisce gli emittenti locali partner di ABC, ha dichiarato la volontà di non mandare, almeno nell’immediato, in onda lo show, confermandone la sostituzione con informazione locale. Turning point USA (movimento fondato da Kirk) definisce il reintegro “un errore”.
David Letterman, padre fondatore di Late show, ha spiegato che “non si può licenziare qualcuno perché si ha paura che possa inveire contro un’amministrazione autoritaria e criminale che c’è ora all’interno dello studio ovale, è ridicolo, semplicemente non si può fare”.
Invece, il presidente americano ha commentato sul social Truth l’interruzione, dovuta “alla difficoltà con gli ascolti”, per poi congratularsi con l’Abc per “aver finalmente avuto il coraggio di fare ciò che andava fatto. Kimmel ha zero talento e ascolti peggiori persino di Colbert. Forse dovrebbe tornare a fare il comico, se mai lo è stato.”
Nei giorni intercorsi tra la cancellazione del programma e il suo ripristino, la solidarietà a Kimmel non è passata inosservata: tantissimi utenti cancellano l’abbonamento a Disney+ e colleghi tra cui Stephen Colbert, attuale conduttore di Lateshow, Jimmy Fallon e Seth Mayers – tutti definiti da Trump come prossime vittime nel suo mirino – hanno manifestato il proprio sostegno.
Le parole di Kimmel
Nei primi minuti della puntata del 15 settembre il presentatore aveva parlato delle nuovi voci riguardanti l’acquisizione dei dati di TikTok da parte del miliardario Maga Larry Ellison, evidenziando il passaggio delle informazioni dall’azienda cinese “all’amico di Trump”, ironizzando: “almeno è qualcuno di cui ci possiamo fidare”.
La prima battuta compromettente al secondo minuto del programma, con cui Kimmel insinuava: “la banda Maga sta cercando di caratterizzare questo ragazzo che ha ucciso Charlie Kirk come qualcosa di diverso da uno di loro, e fa tutto il possibile per ottenere punti politici da ció.”
La seconda dichiarazione aveva invece toccato direttamente il presidente statunitense: “Trump è al quarto stadio del lutto: costruzione. Il pianto di un bimbo di 4 anni per il suo pesce rosso”. La battuta era giunta a seguito di un filmato dalla Casa Bianca in cui Trump diceva addolorato a causa del decesso dell’attivista repubblicano per poi parlare subito dopo dei lavori della nuova sala da ballo.
Si è ipotizzato che una delle cause scatenanti dello stop allo show fosse stata ció che aveva dichiarato Brandon Carr (presidente della F.C.C), che nei giorni seguenti al monologo del comico, aveva affermato che la FCC avrebbe potuto revocare le licenze alle stazioni televisive affiliate alla Abc: “Questo è un problema molto, molto serio in questo momento per la Disney. Possiamo farlo nel modo più semplice o nel modo più difficile. Queste aziende possono trovare il modo di agire contro Kimmel, altrimenti la FCC dovrà fare un lavoro aggiuntivo”.
Che si tratti di un nuovo livello di cancel culture?
Casi simili
Non è la prima volta che il presidente degli Stati Uniti manifesta il suo astio nei confronti dei media televisivi: pochi giorni prima del caso Kimmel, la causa per diffamazione da 15 miliardi di dollari contro il New York Times è stata respinta dal giudice Steven Merryday, che la ha definita come “decisamente impropria e inammissibile, poiché troppo prolissa (85 pagine) e poco focalizzata sul reato contestato.”
Merryday ha specificato che Trump puó presentare un nuovo ricorso entro 28 giorni, a patto che non superi le 40 pagine.
Ai tempi dell’ultima campagna elettorale, il presidente aveva iniziato un’azione giudiziaria contro la CBS (Paramount) per aver montato l’intervista dell’allora avversaria Kamala Harris, andata in onda su Sixty Minutes, azione volta a manipolare l’immagine della candidata democratica per influenzare le elezioni.
Verso un modello Trump-centrico?
La strategia comunicativa sembra richiamare l’espressione ‘Flood the zone’ del consigliere Steve Bannon, letteralmente ‘inonda la zona’, cioè tempestare quotidianamente i mezzi di informazione con notizie di ogni tipo, al fine di rimanere sempre al centro dell’attenzione, non concedendo il tempo per concentrarsi su singoli fatti rendendone un resoconto critico.
La portavoce della Casa Bianca, Bianca Caroline Leavitt, aveva annunciato una redistribuzione dei posti della sala stampa presidenziale, con l’ingresso dei rappresentati dei nuovi media, come Mike Allen, cofondatore di Axios, Matthew Boyle, corrispondente della testata conservatrice Breitbar e Josh Ashbrook, uno dei quattro conduttori del podcast Ruthless.
Dare priorità a influencer ed esponenti di media alternativi significa anche toglierne alle testate più famose e tradizionali: non si tratta solo di una questione di prestigio, ma di rendere più difficile la fruibilità e la diffusione delle fonti.
Dunque la comunicazione appare aver preso una deriva più autoreferenziale in cui il rapporto con l’alterità risulta frastagliato. È questa la Golden Age tanto bramata in campagna elettorale?
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