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    La fuga delle classi popolari

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    Negli ultimi decenni la classe lavoratrice, in Italia così come in altre democrazie occidentali, ha subito una trasformazione profonda nel suo posizionamento politico. Un tempo le forze di sinistra raccoglievano i voti e il sostegno di operai e cittadini della classe popolare. Oggi, invece, quest’ultima si è spostata a destra, oppure ha abbandonato del tutto le urne.

    La disillusione si riflette in modo acuto nelle percentuali di astensione: in Italia, quasi il 60% della classe popolare ha scelto di non votare alle ultime elezioni europee. Il sostegno alla destra è evidente, ma limitato: alle ultime elezioni, il 39% della classe operaia ha votato per Fratelli d’Italia, ma il dato scende al 16% quando si tiene conto dell’astensione. Un numero che, per il Partito Democratico, scende a un drammatico 7%. Non si tratta, dunque, solo di una fuga dalla sinistra, ma di un distacco dalla politica, percepita come lontana dalle preoccupazioni quotidiane.

    L’esperienza psicologica della precarietà

    A partire dagli anni ’90, la sinistra italiana ha adottato politiche pro-mercato, promosse come necessarie alla modernizzazione; le stesse che, però, hanno contribuito a creare precarietà e insicurezza per i lavoratori. Questo cambiamento è parte di una più ampia tendenza internazionale che ha portato molti Paesi, tra cui l’Italia, a riforme come deregolamentazioni, privatizzazioni e tagli alla spesa pubblica. Sebbene l’obiettivo fosse quello di modernizzare l’economia, l’effetto è stato quello di destabilizzare le vite dei lavoratori, ridurre il loro potere contrattuale, aumentando diseguaglianze, precarietà e generando insicurezza economica e sociale.

    Non si tratta solo di una questione di reddito: perdere il lavoro, specialmente in tempi di crisi economica, ha conseguenze psicologiche e sociali devastanti. Studi recenti dimostrano che chi perde il lavoro in una recessione può notare una riduzione nei guadagni futuri fino al 40%, con ripercussioni anche sulla salute mentale e sulle dinamiche familiari. La precarietà è quindi una realtà che alimenta ansie e paure concrete, spesso amplificate dai cicli economici e da decisioni politiche percepite come insensibili. Questa incertezza si traduce in un senso di tradimento da parte di istituzioni e partiti che, un tempo, difendevano i diritti dei lavoratori.

    Un’identità politica riscritta

    Nel vuoto di rappresentanza lasciato dalla sinistra, la destra ha saputo costruire, almeno in parte, una narrazione che sembra rispondere alle ansie e alle insicurezze generate in molti lavoratori. Di recente, ad esempio, Fratelli d’Italia ha catalizzato consenso su temi di sovranità nazionale e difesa dei valori tradizionali, toccando corde che risvegliano passioni e paure di una classe popolare che si percepisce abbandonata. Questa “politica dell’identità conservatrice” trasforma il concetto di classe lavoratrice, spostando il focus dagli interessi economici collettivi a un’identità culturale che celebra valori come l’orgoglio nazionale e la resistenza alle influenze globaliste.

    Questo approccio va oltre il reddito e il lavoro, toccando l’appartenenza e il senso di comunità. La destra si propone come unica forza capace di difendere “la gente comune” dalle minacce percepite, come immigrazione e globalizzazione. Si è quindi posizionata come interprete delle ansie e delle frustrazioni dei lavoratori, creando un’identità alternativa alla classica nozione di classe.

    Se il voto conferito alla destra rappresenta parte di questa trasformazione, il fenomeno del non-voto rivela una forma ancora più radicale di “resistenza silenziosa.” La scelta di astenersi, fatta da una parte maggioritaria della classe lavoratrice, esprime una sfiducia profonda verso un sistema politico percepito come irrilevante. Più che scegliere una nuova rappresentanza, i lavoratori sembrano affermare che nessuna forza politica attuale rappresenta le loro esigenze. Questo distacco diventa una protesta muta, ma potente, contro un sistema in cui non ci si riconosce più.

    Una rappresentanza perduta

    Per comprendere appieno la crisi di rappresentanza della sinistra, è utile riconoscere che oggi la nozione stessa di “sinistra” appare sfuggente e ambigua. La sinistra contemporanea è spesso associata a inclusione e diritti civili, meno frequentemente alle battaglie economiche e alle rivendicazioni di classe che un tempo la definivano. Alcuni segmenti della sinistra sembrano aver abbandonato i luoghi fisici e simbolici della classe lavoratrice, concentrandosi su temi progressisti importanti che però, spesso, non rispondono alle priorità quotidiane della classe lavoratrice.

    Che fine hanno fatto tutte le battaglie sociali che hanno scandito la vita politica dell’Italia negli anni Sessanta e Settanta, e che sarebbero tanto più necessarie oggi – in forma moderna – alla luce delle tensioni internazionali, della necessità di operare la transizione ecologica, dell’emergere di nuove potenze globali, e dei cambiamenti tecnologici in corso?

    Questa disconnessione è evidente nelle campagne elettorali e nelle narrazioni politiche: i partiti dell’area di sinistra sembrano capaci di descrivere la condizione di svantaggio vissuta da molte minoranze, ma hanno perso la capacità di descrivere e comprendere l’esperienza di vita di famiglie permanentemente sull’orlo della precarietà economica. In questo contesto, è comprensibile che molti lavoratori non si riconoscano più in forze che appaiono distanti nel tipo di linguaggio usato e nelle priorità.

    La destra ha saputo approfittare di questo vuoto politico, costruendo un’identità che parla alle paure dei lavoratori, anche se non sempre con risposte concrete. Il non-voto rappresenta una dichiarazione di insofferenza verso un sistema considerato non all’altezza dei bisogni reali.

    Ritrovare una connessione con le classi popolari significa riconoscere non solo le problematiche economiche, ma anche l’impatto psicologico e sociale di una politica che lascia il campo esclusivamente al libero mercato. Alle lotte collettive si è sostituito un culto dell’individualismo e della competizione “dalla culla alla tomba”, demolendo la nostra capacità di immaginare una società in grado di far avanzare contemporaneamente diritti civili e sociali.

    Senza questa presa di consapevolezza, rischiamo di rimanere confinati in un dialogo autoreferenziale, lontano dai luoghi e dai bisogni reali dei cittadini.

    A cura di

    Andi Shehu e Francesca Romana D’Antuono (Volt Europa)

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