Prima della sua dissoluzione, avvenuta nel non troppo lontano 1991, l’Unione Sovietica finanziava e sosteneva sotto molteplici aspetti — economici, militari e diplomatici — numerosi movimenti e organizzazioni socialiste nel continente africano.
Durante gli anni di ‘splendore’ dello Stato sovietico, Paesi come Mozambico, Sudafrica, Zimbabwe e Angola erano coinvolti nel grande gioco geopolitico che il Cremlino conduceva, e in parte continua a condurre, contro l’Occidente per il controllo del Sahel. Anche gli Stati francofoni, come Benin, Madagascar, Guinea, Congo e Ghana, non furono esenti da questo complesso Risiko africano, in cui Francia e Stati Uniti sembrano, da troppi anni ormai, aver lanciato i dadi sbagliati, lasciando ampio margine alle ambizioni egemoniche di Mosca.
Il Sahel
Con i suoi oltre 3 milioni di chilometri quadrati di superficie, il Sahel si presenta come una regione caratterizzata da un clima tropicale semi-arido, in una terra brulla e sabbiosa dove cellule terroristiche di matrice islamista, prevalentemente salafita, trovano terreno fertile per minare la stabilità dell’intera area subsahariana.
Ma perché il Sahel è oggi così importante? La risposta, a scanso di equivoci, non risiede esclusivamente nelle sue ricche miniere di uranio, che rappresentano una risorsa fondamentale per Parigi, alimentando i 58 reattori nucleari del Paese. Né si limita alla presenza di basi americane, strategicamente posizionate per contrastare la minaccia jihadista in tutta la regione sottostante l’Africa magrebina.
Questa fascia di sabbia assume oggi una rilevanza cruciale perché rappresenta il pulsante di innesco di una delle più sofisticate armi della storia contemporanea: i migranti. Un nuovo strumento di guerra ibrida che Mosca adopera cinicamente contro i paesi europei, sfruttando le delicate rotte migratorie per esercitare pressioni geopolitiche verso tutta l’UE.
La caduta di Niamey, la vittoria di Putin
La vittoria di Putin sul Sahel e l’affermarsi di questa inumana e agghiacciante strategia si consolidano con la presa del Niger. Appena un anno fa, i russi hanno compiuto uno scacco matto in Africa, conquistando di fatto Niamey e, con essa, l’intera fascia saheliana. Tuttavia, l’avanzata di Mosca in questa regione è da attribuirsi principalmente alla debole risposta occidentale, o meglio, alla mancanza di un consolidamento strategico da parte dell’Occidente nell’area.
Dopo l’espulsione del contingente francese, la giunta del Niger ha strappato gli accordi di collaborazione economica, militare e diplomatica con l’Unione Europea e i suoi alleati. Ancora più allarmante, ha revocato le norme che punivano e contrastavano il traffico di esseri umani. Questa cooperazione era fondamentale per UE, Francia e Stati Uniti: un punto d’incontro strategico che, grazie a oltre tremila soldati francesi e due basi statunitensi nel Niger, perseguiva obiettivi geostrategici cruciali, come il contrasto alla minaccia jihadista, il controllo dei traffici di esseri umani e l’approvvigionamento di materie prime tramite accordi transnazionali.
Nuovi alleati per il Niger
Con il venir meno di queste certezze, ossia dell’effettiva presenza europea e occidentale in generale nella regione del Sahel — presenza che garantiva finanziamenti, stabilità e sicurezza al governo nigerino —, la Russia ha colto l’occasione, agendo in maniera assolutamente pragmatica. Questo spiega le visite del Primo Ministro Ali Mahamane Lamine Zeine al Cremlino. Un cambio di rotta che porterà il leader nigerino anche in Turchia, Iran e Serbia, alla ricerca di finanziamenti e armamenti utili alla sua causa.
A confermare l’intesa con Mosca sono i vari incontri tra Yunus-Bek Jevkurov e Alexander Fomin, viceministri della difesa russi, e il ministro nigerino Salifu Modi. I tre “hanno concordato di intensificare le azioni congiunte per stabilizzare la situazione nella regione”. Questa strategia è cruciale per Putin, che mira a condurre una guerra ibrida contro l’Occidente attraverso il controllo dei flussi migratori diretti verso le coste europee. Al contempo, essa è vitale per il Presidente Ali Mahamane Lamine Zeine, stimato economista del Niger e figura di rappresentanza scelta dai militari al potere. Zeine si trova oggi a dover governare un territorio estremamente complesso e pericoloso, in un contesto di crescente instabilità politica.
Non più bombe, ma esseri umani
Con lo scoppio della guerra in Ucraina, si è spesso sentito parlare dei militari della Wagner, un gruppo di mercenari al servizio del Cremlino impiegati per svolgere il “lavoro sporco” in contesti bellici o in scenari geopolitici strategici. Tuttavia, le milizie Wagner non sono state utilizzate esclusivamente nell’invasione dell’Ucraina.
Esse hanno ricoperto – o meglio, ricoprivano – un ruolo estremamente prezioso per Mosca anche in Medio Oriente, principalmente a supporto del regime (ora caduto) di Assad in Siria, e in diverse nazioni africane, come la Repubblica Centrafricana, il Burkina Faso, il Sudan, il Mali e la Libia. Quest’ultima, in particolare, rappresenta uno snodo cruciale per i flussi migratori che, partendo dal Sahel, attraversano l’Africa settentrionale con forte pressione sulla Cirenaica, e spingono migliaia di persone a intraprendere il pericoloso viaggio attraverso il Mediterraneo per raggiungere le coste europee.
Se da un lato, per la nostra sensibilità, questa situazione implica dover prestare soccorso e salvare vite innocenti – come è giusto che sia, nel rispetto della dignità umana e degli accordi cui l’Italia è internazionalmente vincolata – dall’altro rappresenta per Putin un’opportunità strategica per impegnare o, meglio, impelagare le autorità militari e le guardie costiere dei paesi dell’Europa meridionale con operazioni di recupero.
I migranti come arma politica
Una strategia che, sebbene non paragonabile a un bombardamento, un attacco missilistico o un colpo di cannone, costituisce comunque un atto di destabilizzazione politica, sia interna che estera, per paesi come l’Italia, che affrontano già molteplici difficoltà nella gestione dei flussi migratori. Questa tattica rientra nella cosiddetta “guerra ibrida”: un tipo di attacco al sistema stato che, attraverso strumenti non propriamente bellici, mira a destabilizzare l’equilibrio interno o internazionale di una nazione, operando in una “zona grigia” non ben definita. I migranti, in questo contesto, sono utilizzati come strumento, ma esistono molti altri mezzi: pensiamo, ad esempio, agli attacchi informatici contro siti governativi o al sabotaggio dei cavi in fibra ottica posati sui fondali marini.
Non è, tuttavia, la prima volta che il Cremlino e il suo entourage utilizzano i migranti come arma politica. Il corridoio che dal Sahel arriva fino alla Libia è cruciale per Putin, così come la presenza della Wagner, essenziale per le ambizioni di Mosca.
Un altro caso eclatante si è verificato in Finlandia. Quando il governo di Helsinki annunciò pubblicamente l’intenzione di aderire all’Alleanza Atlantica, il Cremlino decise di aprire i rubinetti al confine, favorendo il passaggio di migliaia di individui dalla Russia verso la Finlandia. A rivelare la strategia fu il giornale Iltalehti, che, attraverso un’inchiesta, dimostrò come Mosca stesse aiutando le popolazioni del Corno d’Africa (Somalia, Gibuti, Eritrea ed Etiopia) e del Medio Oriente a raggiungere legalmente la Russia, fornendo loro il necessario per il viaggio e indirizzandole poi verso i confini finlandesi. A confermare questi eventi vi sono le prove raccolte da Frontex durante le operazioni di pattugliamento e i dati del Governo di Helsinki, che registrò un incremento anomalo e ingestibile delle richieste d’asilo.
E l’Italia?
Sebbene i traffici provenienti dal Nord-Est non ci riguardino direttamente – ma destabilizzino i nostri partner europei e, di riflesso, anche noi – quelli che arrivano dalle coste africane, invece, ci toccano da vicino. Dopo il ritiro del contingente francese, l’esercito italiano è l’ultimo presidio europeo rimasto in Niger. Una presenza strategica troppo importante per il nostro Paese, alla quale il governo Meloni non intende rinunciare.
La giunta militare nigerina, infatti, non ha mai espresso alcun malcontento riguardo alla presenza militare italiana, né manifestato l’intenzione di espellere l’Italia dal Paese. Il “Presidente del Consiglio Nazionale per la Salvaguardia della Patria del Niger”, il generale Abdourahmane Tchiani, ha più volte interagito con i servizi segreti italiani, sottolineando che l’Italia è l’unico Paese europeo ad aver mantenuto una cooperazione regolare e ininterrotta con il Niger dopo il colpo di Stato del 2023. Il generale ha confermato la volontà di proseguire i rapporti con il Belpaese.
Le ragioni che, nel 2018, hanno dato il via alla Missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger (MISIN) sono molteplici. Tra queste, si evidenzia l’obiettivo di “incrementare le capacità volte al contrasto del fenomeno dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza, nell’ambito di uno sforzo congiunto europeo e statunitense per la stabilizzazione dell’area e il rafforzamento delle capacità di controllo del territorio da parte delle autorità nigerine e dei paesi del G5 Sahel”. In questo contesto, l’Italia è considerata un interlocutore privilegiato. Il governo Meloni sta impiegando tutte le risorse necessarie per la gestione – o meglio il contrasto – dei flussi migratori nell’Africa centro-settentrionale, puntando alla piena attuazione degli obiettivi del Piano Mattei.
In conclusione
Guardando da questa prospettiva, appare chiaro che la presenza italiana nel Sahel, e in particolare in Niger, non cesserà di esistere. E ad andare avanti, assieme alla stipulazione di accordi tra il nostro Paese e molteplici dittature africane, sarà la violenta e inumana tratta di esseri umani, usati da Putin come carrarmati in un Risiko dove a rimetterci sono e saranno sempre gli ultimi.
20250007