Vivere per lavorare o lavorare per vivere? Tra le due opzioni, decisamente la seconda. Con “Lavoro, poi stacco” la Gen Z si mobilita per ottenere il riconoscimento del diritto alla disconnessione. Non un semplice slogan, ma un’istanza generazionale all’insegna del work–life balance. La palla passa, ora, nelle mani della classe politica: è questa l’ennesima sfida che non può essere ignorata, né tantomeno affrontata con dilettantismo.
Dall’assenteismo al superlavoro
Oggi pensare che la mole di lavoro possa essere ancora condensata nel fantozziano orario d’ufficio 9/17 è del tutto anacronistico. Svolgere le pratiche previste per la giornata corrente, partecipare a qualche riunione, per poi tornare a casa e seguire comodamente la partita di calcio: no, non funziona così. Esistono call interminabili programmate in agenda ben dopo le 18, ma anche slide da preparare, presentazioni da rivedere, pletore di e-mail e messaggi cui dare riscontro anche a serata inoltrata. Attenzione però: quanto detto poc’anzi costituisce soltanto la punta di un iceberg più che visibile, benché non approfondito. Alla sovra-esposizione al digitale – intermediario del rapporto tra capitale e lavoro – è da sommare la gestione delle inevitabili relazioni con colleghi e superiori; in questi ultimi due casi una banale vibrazione di cellulare può essere indice di tempeste, fulmini e saette in vista. Infine, degno di menzione è il processo di aggiornamento continuo – il cosiddetto life-long learning – anch’esso discendente dalla tecnologia, la cui invalidazione equivale (metaforicamente, ma neanche troppo) a morte certa. Tutte componenti che, fino a prova contraria, sussistono l’una in funzione dell’altra.
Con ogni probabilità, una buona percentuale di chi sta leggendo queste righe può affermare di aver assistito, con l’arrivo del nuovo millennio, alla transizione dal lavoro al superlavoro. Soffermiamoci un istante su questo aspetto: dal punto di vista etimologico, ‘super’ è un prefisso di parole composte, nelle quali secondo Treccani indica “quantità eccessiva, straordinarietà, eccezionalità”. Un monte ore legato a doppio filo al digitale e che non ha nulla a che vedere con quanto stabilito nelle condizioni contrattuali; un macigno ingombrante sulle spalle di dipendenti privati e pubblici. La questione si complica ulteriormente considerando imprenditori e freelance: quando il lavoro – qualunque esso sia – chiama, deve poter trovare ‘libero’ dall’altra parte. ‘Occupato’ e ‘irraggiungibile’ rappresentano stati assolutamente non ammessi. La risposta deve essere repentina e quanto più efficiente possibile, indipendentemente dal carattere più o meno urgente della domanda.
Lo stesso vale nel caso dello smart working: complice la pandemia causata dal Covid-19, l’implementazione di quest’ultima modalità lavorativa è divenuta sempre più frequente proprio perché smart, dunque priva di contatto fisico. È sufficiente un device e una connessione internet stabile; lavoro agile, così si chiama. Un po’ meno agile quando si scopre che, dietro una superficie patinata fatta di location tropicali e talvolta improvvisate, si nascondono nottate intere passate ad ultimare le task rimaste in sospeso, tempo libero che in realtà non è mai effettivamente tale, weekend ottimizzati per ‘portare avanti’ il lavoro.
Tutta colpa della cultura del lavoro, direbbero alcuni. A ben guardare, i dipendenti – attuali tanto quanto futuri – non sono affatto esenti da responsabilità. Ciascuno dei passaggi precedentemente citati trova terreno fertile poiché a conferirgli vitalità sono gli stessi soggetti che, in separata sede, lamentano malessere e insoddisfazione. Si tratta di quello che, in gergo, viene noto come ‘tacito consenso’: un’omertà profondamente dannosa per il benessere psicofisico le cui radici vanno ricercate nel consumismo e nel neoliberismo. Do ut des l’ideologia ad essa riconducibile; l’usa e getta l’intramontabile approccio alle persone, alle cose e, non da ultimo, al lavoro. Considerati questi punti, non sussiste alcuno scrupolo nelle relazioni: si sfrutta la benevolenza e la disponibilità della controparte lavorativa anche al di fuori dall’orario previsto, pur di ottenere la tanto agognata approvazione. Dall’altra parte, ci si sente quasi in dovere di esaudire ogni richiesta avanzata con quella solerzia che, forse, soltanto gli automi sarebbero davvero capaci di implementare a ciclo continuo e con eguale vigore. In caso contrario, subentrerebbero sensi di colpa, complessi di inferiorità, lotte al perenne rialzo.
Man mano che si sale nella scala gerarchica, ciascuno di questi aspetti pare esacerbato. Segue da qui un rapporto ‘malato’, riassumibile nella dicotomia preda-predatore. Chi rifiuta simile dinamiche, sbandierando il feticcio della salute mentale, viene gentilmente accompagnato alla porta e ‘scaricato’ professionalmente.
Lavoro, dunque vivo
Poiché la matematica non è un’opinione, è la proprietà commutativa a dirci che, cambiando l’ordine degli addendi, il risultato resta invariato. Viviamo perennemente connessi al lavoro, intessendo con quest’ultimo un rapporto quasi simbiotico. Il problema subentra con il fatto che, pur accavallando impegni su impegni e allontanando l’introspezione, alla resa dei conti rendiamo poco. Sono numerose le occasioni in cui, all’intensità con cui ci apprestiamo alla pratica quotidiana, non corrisponde un profitto altrettanto ricco. È evidente che qualcosa non funzioni come dovrebbe. Il motivo? Molto semplice: a differenza di quanto idolatrato dalla narrazione mainstream, quantità e qualità non sono categorie interscambiabili tra loro. Ciò significa che lavorare tanto non necessariamente comporta un risultato di qualità. Molto spesso accade esattamente l’inverso: più ci sforziamo di veicolare impegno e serietà sul lavoro, mantenendo a tutti i costi una condotta che collimi con quella sovrastruttura sociale perpetuataci dai posteri fin dai primi anni di vita, ovvero la produttività, e più ci ‘esauriamo’, mettendo a rischio la tenuta fisica e psicologica. Dunque, i fronti su cui intervenire celermente sono almeno due: la dipendenza dal lavoro e l’atteggiamento con cui al lavoro stesso ci si appresta.
Rispetto al primo punto, va detto che In Italia l’orario lavorativo standard si attesta intorno alle 49 ore settimanali. Stando a queste percentuali, Eurostat calcola che nel nostro Paese una persona su dieci, di età compresa tra i 20 e i 64 anni, sia impegnata circa un giorno in più a settimana rispetto ai colleghi stranieri. A pesare è l’incidenza del lavoro autonomo, settore che prevede orari di lavoro mediamente più lunghi (il 29,3% della suddetta categoria lavora almeno 49 ore la settimana). Nonostante ciò, la categoria più impegnata in assoluto è quella dei dirigenti.
Adottando un approccio più olistico, si scopre che nella maggior parte dei Paesi europei il monte ore previsto è inferiore a quello italiano: oscilla tra le 36 e le 40 ore. Ma al di là delle ore ufficialmente effettuate, la differenza sostanziale risiede nel fatto che al di là delle Alpi, grazie a leggi che obbligano alla disconnessione, esiste un tempo libero veramente degno di questo nome. Niente messaggi, telefonate, email e riunioni fuori orario.
Secondo il recente rapporto dell’Eurofound ‘Right to disconnect: implementation and impact at company level’, attualmente i Paesi che prevedono una legislazione articolata in questo senso sono 9: Belgio, Francia, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Portogallo, Slovacchia e Spagna. Il primato va conferito alla Francia, primo Paese europeo ad introdurre il diritto alla disconnessione con il Codice del Lavoro del 2016. A malincuore va altresì menzionato che, nel nostro Paese, il diritto alla disconnessione non è dettagliato come in Francia: è stato introdotto per la prima volta con la legge 81/2017 – la cosiddetta legge sullo smart working – ma nonostante ciò risulta, oggi, pezzo e poco inclusivo. Il risultato che si ottiene, quindi, è paradossale: una legge ‘vecchia’ – come ogni legge, inesorabilmente, diventa in mancanza di espliciti aggiornamenti – e una quotidianità che scorre impetuosa.
Per ovviare questo scarto, è nata la campagna“Lavoro, poi stacco” promossa da L’asSociata, un’associazione di associazioni che intende riscrivere l’agenda politica mettendo in primo piano l’impellenza della richiesta espressa dalla Gen Z: staccare nettamente il lavoro dalla vita. Con poca sorpresa, l’istanza è stata accolta favorevolmente dalla politica partitica di stampo progressista – quella maggiormente incline alla presenza dello psicologo di base e verso cui i giovani under 35 si sono di recente orientati in misura massiccia. Il Partito Democratico ha depositato alla Camera una proposta di legge, intitolata proprio ‘Lavoro, poi stacco’, al fine di introdurre anche in Italia il diritto alla disconnessione di tutti i lavoratori; stabili e precari, dipendenti e autonomi, in smart working così come in presenza. Arturo Scotto, primo firmatario, spiega che “è un diritto di ciascun lavoratore e ciascuna lavoratrice poter chiudere al termine del turno il proprio rapporto con il lavoro, perché nessuno può vedere sacrificato il proprio tempo di vita sulla base esclusivamente del volere del datore di lavoro”.
Tendere le mani ai giovani
Tutto è bene quel che finisce bene, quindi? Ancora prematuro dirlo con certezza; soltanto il tempo potrà fornire maggiori indicazioni. Nello specifico, ‘Lavoro poi stacco’ dovrà fare i conti con alcune costanti tipiche della partitica italiana. Anzitutto, il funzionamento a compartimenti stagni: giungendo dall’ala sinistra dell’emiciclo parlamentare, la suddetta istanza dovrà essere tanto salda da abbattere i beceri infantilismi tra maggioranza e opposizione e, non da ultimo, la sterile retorica destra-sinistra.
In secondo luogo, dovrà venire a patti con gli intramontabili cliché, secondo cui i giovani sono apatici, viziati, eccessivamente radicali. Insomma, individui che ‘si lamentano di gamba sana’; tutto questo perché, nel corso dei decenni, l’attività professionale ha sempre e comunque comportato sfide e rinunce. È bene però aggiungere che, alla superficialità con cui si corrobora quest’ultima retorica, non segue un’altrettanto celere presa in carico delle manchevolezze e dei soprusi innescati dallo status quo e da forze di qualsiasi colore politico, susseguitesi negli ultimi 40 anni. Le stesse manchevolezze che, oggi, vengono scaricate su chi è più giovane.
La domanda, a questo punto, è: era necessaria una proposta di legge per accendere i riflettori su una cultura del lavoro visceralmente malata? Forse sì, almeno nel nostro Paese. In ogni caso, allo stato attuale la situazione è articolata come segue: i giovani, da un lato, in mobilitazione per salvaguardare i propri diritti e la salute mentale; i veterani, dall’altro, increduli del passaggio dall’assenteismo e dal doppio lavoro, in pieno stile Fantozzi, al lavoro ‘sano’.