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    Lavoro dietro le sbarre: i referendum di giugno riguardano anche chi lavora in carcere

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    In carcere si lavora, ma senza tutele, diritti, contratti. A Rebibbia le persone detenute alzano la voce e chiedono che il dibattito pubblico non dimentichi chi è rinchiuso. I referendum di giugno, che riguarderanno tutti, sollevano anche una questione di giustizia sociale dietro le sbarre.

    Un tema ignorato: il lavoro dietro le sbarre

    Il lavoro in carcere non è solo un’attività utile a riempire il tempo o un’occasione di riscatto personale. Per moltissime persone detenute, è una questione di sopravvivenza, dignità e diritti. Eppure, di lavoro in carcere si parla poco, troppo poco, soprattutto quando il dibattito pubblico si concentra su temi legati alla sicurezza o alla giustizia penale. I prossimi referendum di giugno, che riguarderanno alcune norme sul lavoro e la tutela dei diritti dei lavoratori, non sono quindi solo una questione che interessa l’”esterno”. 

    Anche dentro le mura di una prigione, le scelte politiche fatte nel mondo libero hanno effetti profondi. È questo il messaggio che arriva da Rebibbia, uno dei più noti istituti penitenziari italiani, dove le persone detenute si stanno organizzando per far sentire la propria voce attraverso la redazione di Radio Rebibbia – Jailhouse Rock.

    L’appello da Rebibbia

    Qualcuno – magari fra quelli che dicono ‘’buttate le chiavi e lasciateli in galera’’ – dirà che non sono fatti nostri, che non ne sappiamo nulla. Ma pure se non se ne parla mai, anche nelle carceri c’è lavoro. Duro, sfruttato, sfruttatissimo, mal retribuito, concesso dalle direzioni come un privilegio non come un diritto. Perché in carcere sono i detenuti a pulire le celle, i corridoi, a portare il vitto, a scrivere le domandine, a tagliare l’erba nei cortili. Con un salario che serve a pagare la permanenza dietro le sbarre e, nel migliore dei casi, a mandare pochi euro a casa. Per quelle famiglie che contano solo sulle entrate di chi ora è privato della libertà.

    Si, in carcere, a Rebibbia c’è il lavoro. Ed è duro, sfruttato. Senza diritti. Ecco perché chiediamo a chi sta fuori di andare a votare al referendum di giugno. Di andare a votare si, per abrogare le norme che hanno ridotto i diritti sul lavoro, i diritti delle persone che vivono in questo paese.

    Magari – perché non sperarlo? – far crescere i diritti ‘fuori da queste sbarre’ avrà ricadute anche per chi vive e lavora dietro quelle sbarre’, così i detenuti della redazione di Radio Rebibbia – Jailhouse Rock. 

    Un lavoro senza diritti 

    Questo appello, scritto con lucidità e coraggio, mette in luce una verità scomoda: il lavoro carcerario è troppo spesso invisibile e regolato da logiche che nulla hanno a che fare con i diritti costituzionali. Le attività lavorative dentro gli istituti di pena non sono riconosciute come un diritto universale, ma come concessioni discrezionali da parte delle direzioni penitenziarie. 

    Spesso i compensi sono irrisori, l’accesso al lavoro è limitato e non regolato da contratti equi. Ciò che nel mondo libero è considerato normale — ferie, malattia, sicurezza sul lavoro — in carcere resta un miraggio. In questo contesto, i referendum abrogativi assumono un valore simbolico e pratico: perché parlare di diritti del lavoro senza includere chi lavora in condizioni così estreme?

    I numeri e il ruolo delle associazioni

    Secondo i dati raccolti da associazioni che operano all’interno degli istituti penitenziari, solo una minoranza dei detenuti in Italia ha accesso a un lavoro. Chi ce l’ha, spesso lavora per mantenere in piedi lo stesso sistema carcerario: cucine, pulizie, manutenzione. Tutto questo con salari che vanno dai 2 ai 5 euro al giorno, e che devono in parte essere destinati al pagamento delle spese di detenzione. 

    I progetti come quello di Radio Rebibbia – Jailhouse Rock sono fondamentali perché rappresentano spazi di libertà, di parola e di denuncia. Danno voce a chi solitamente non ne ha. Proprio attraverso quest’ultima redazione, composta da persone detenute, nasce la consapevolezza che i diritti, per essere reali, devono essere inclusivi, devono attraversare le mura e i cancelli.

    Una scelta collettiva di civiltà 

    I referendum di giugno chiamano in causa la responsabilità di chi – pur vivendo fuori dal carcere – non può comunque ignorare quanti presenti all’interno. I detenuti di Rebibbia chiedono che le battaglie sui diritti del lavoro non siano confinate ai soli sindacati, ai lavoratori dipendenti o ai precari.

    Chiedono di essere considerati parte di questa società, anche se temporaneamente esclusi. Chiedono che il cambiamento nel mondo libero possa produrre effetti tangibili anche per chi sta scontando una pena. La loro richiesta non è solo politica: è una lezione di civiltà.

    In un tempo in cui si alzano muri e si semina indifferenza, l’appello che arriva dal carcere rompe il silenzio e interpella la coscienza collettiva.

    Conclusioni

    In definitiva, il lavoro in carcere non può essere visto come un privilegio o una forma di clemenza, ma come uno degli strumenti fondamentali per il reinserimento sociale. Ignorarlo o lasciarlo nel limbo significa perdere un’occasione per costruire una società più giusta e più umana

    I referendum di giugno rappresentano un’occasione concreta per tornare a parlare del lavoro come diritto universale. Anche da dietro le sbarre, c’è chi crede che il voto possa cambiare le cose. Anche da dietro le sbarre, c’è chi lavora, e chiede giustizia.

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