Lo diciamo subito a scanso di equivoci: le festività natalizie non coincidono necessariamente con gioia, pace, unione e benessere collettivo. Gli attributi poc’anzi menzionati sono tali per convenzione sociale, sospinti da quell’ideologia cristiana cattolica che tanto pareva intramontabile, almeno fino all’avvento della globalizzazione, spartiacque dalla portata rivoluzionaria tanto negli usi quanto nei costumi.
A dispetto di quanto si possa immaginare, per molti giovani il Natale collima con un turbinio di emozioni contrastanti; il rischio che i parenti, riuniti attorno ad un tavolo, mettano bocca su questioni di cui sono pressoché all’oscuro ponendo domande scomode è praticamente dietro l’angolo. Si badi bene, nulla di nuovo sotto il sole: il decorso anagrafico, quantomeno in un Paese sempre più anziano come il nostro, pare essere tale solo in presenza di un’aspra critica mossa contro tutto ciò che fuoriesce dal seminato. Seminato che, con buona probabilità, si estende entro e non oltre la distanza che separa il palmo del proprio naso dal resto dell’umanità. Rivista in questi termini, l’immagine che vede alcuni pensionati inchiodati davanti ai cantieri ad esaminare il decorso – a prescindere dall’entità, dal committente e dalla topografia del luogo a loro dire perennemente rallentato e tecnicamente sbagliato – dei lavori pubblici ci fa sorridere, ma forse anche un po’ riflettere.
Gli interrogativi a cui non abbiamo una risposta
Caliamoci per un istante nell’atmosfera tipica di questo periodo: zii, cugini, nonni e nipoti incastrano le rispettive agende e, nel rispetto della tradizione, si ritrovano per scambiarsi gli auguri natalizi. Nulla di effettivamente nuovo, se non fosse per il primato che, con onestà intellettuale, va conferito proprio all’arco temporale di cui stiamo trattando: rammentare l’esistenza di persone fino ad allora letteralmente sepolte nei meandri della nostra conoscenza. Per rompere il ghiaccio, archiviati i petulanti discorsi sullo scorrere incessante dei giorni, si tenta la cavalcata simpatia con discorsi “leggeri”: giovani svogliati, pensioni che non arrivano, tasse sempre più salate da pagare, lavori precari, una politica distante dalla realtà quotidiana dei cittadini; considerando l’età mediamente avanzata di chi si fa gentilmente paladino di istanze articolate come sopra, quanto detto poc’anzi non stupisce affatto. D’altro canto, se è vero che al peggio non c’è mai fine, per toccare il fondo bisogna attendere il vulnus: l’atteggiamento moraleggiante mediante cui la vita contemporanea, pregna di vizi e virtù, viene passata al setaccio.
Di qui quesiti spesso inopportuni, tesi quasi a voler mettere in difficoltà il proprio interlocutore, giudicandolo dall’alto di quel piedistallo chiamato età adulta; ed è così che l’essere giovani, troppo giovani, diviene una dura colpa da scontare. Una volta posti, quei punti interrogativi alla fine dei periodi inaugurano scenari a dir poco eclatanti: da un lato, chi tenta di svicolare un ulteriore confronto, non comprendendo appieno la semantica contenuta nella risposta dell’interlocutore, ponendo semplicemente alcuni intercalari tali da riempire il vuoto; dall’altro, intravedendo pensieri disposti in ordine sparso, chi eleva la propria posizione – già traballante per via della poca confidenza – divenendo argine di cotanto fiume in piena.
Tra le domande dalla subdola valenza esistenziale, la più gettonata pare essere la seguente: “Che cosa vuoi fare da grande?” Una domanda apparentemente innocua, quasi giocosa, tant’è vero che le sue prime apparizioni sono attestate nel bel mezzo della fanciullezza – tra i 7 e i 12 anni – ma che in realtà, esaminata più da vicino, dovrebbe indurre una profonda riflessione circa le conseguenze procurate a breve, medio e lungo termine. Chi sta leggendo queste righe potrebbe ora commentare: “una riflessione, sì, ma a che pro?” A ben guardare, tutti noi crescendo ci formuliamo mentalmente una vita idealtipica, tanto positiva quanto diametralmente opposta alla difficoltà insita nel raggiungimento di qualsivoglia traguardo di valore. Non c’è dunque alcunché di sbagliato nel sentire pletore di bambini e bambine ripetere in coro “l’astronauta, il medico, l’artista, il cantante, l’attore”; questi semplici sogni, un giorno, potrebbero divenire realtà. Il punto su cui riflettere è che l’interrogativo di cui sopra è doppiamente errato, nel metodo e nel merito; una sorta di vaso di pandora che, una volta scovato, porta in superficie il vero nocciolo della questione, la subordinazione dell’essere al fare inquadrabile nella più generale crisi dei modelli educativi. Procediamo con ordine cercando di smontare ogni singolo aspetto, manifesto tanto quanto latente.
Le fasi dello sviluppo
Anzitutto, vale la pena specificare che la vita umana prende forma attraverso un’articolata rete di evoluzioni, ossia differenti stadi di sviluppo cognitivo, sensoriale e motorio che scandiscono la nostra sussistenza. A dimostrarlo è la psicologia dello sviluppo, una particolare branca della psicologia volta all’analisi delle fasi evolutive e dei mutamenti ad esse correlati. Ciò detto, chiaramente l’essenza di ciascuno è tale anche e soprattutto in relazione agli input che riceve a livello sociale: difatti, Aristotele, prima, e Durkheim, poi, si accorsero dell’inestricabile relazione tra individuo e società, motivando quest’ultima con la capacità del contesto di plasmare anzitempo scelte, azioni, finanche l’identità individuale. Dunque, traendo spunto dal comportamentismo, riassumibile nell’ottica stimolo-risposta, capiamo come ogni fattore incontrato nel bel mezzo del nostro cammino lasci una traccia, in molti casi indelebile, che implicitamente ci condiziona tanto nella corporeità quanto nell’intelletto.
Andiamo ora a semplificare il decorso dell’età evolutiva riconducendolo a quattro macro-periodi: prima infanzia, seconda infanzia, fanciullezza e adolescenza. Concentrando l’attenzione sulle ultime due fasi, ritenute più impattanti ai fini della nostra analisi, si apprende come nell’arco temporale compreso tra i sei e gli undici anni subentri un’importante evoluzione a livello cognitivo, la stessa mediante cui si passa dal riconoscere le persone deputate al processo di socializzazione, alle prime forme – seppur ancora rudimentali – di ragionamento simbolico. La prospettiva, fino a questo momento fortemente egocentrica, inizia a prendere in considerazione l’arena sociale in senso lato, estirpando le relazioni causali di volta in volta preminenti: basandosi su esperienze ed osservazioni dirette, si ha dunque modo di applicare l’induzione ai problemi concreti della vita. Nonostante ciò, le capacità di analisi sono ancora sottosviluppate, motivo per cui risulta difficile prevedere a pieno regime una logica astratta o ipotetica.
Permane, infatti, una profonda discrasia tra il mondo circostante e la “bolla” entro cui ci si trova inconsapevolmente racchiusi: benché le relazioni sociali siano qui più capillari, esse comunque rispecchiano una porzione marginale – se non falsata – di quella totalità che, per ragioni anagrafiche, non è possibile affrontare; il rischio, in questo senso, è trasformare i particolari ravvisabili in vere e proprie linee guida indicative dell’insieme. Se a ciò aggiungiamo l’influenza giocata dalle figure chiave di riferimento, diviene allora palese l’eterodirezione cui tutti noi andiamo incontro, e da cui sarebbe il caso prendere appena possibile le distanze, considerando l’occlusione giocoforza esercitata tale da livellare interessi e passioni dei figli alle preferenze dei rispettivi genitori. Ecco spiegata la fallacia di interrogativi eccessivamente personali, volti a tracciare una rotta esistenziale: chiedere che cosa si voglia fare della propria vita senza nemmeno prendere in considerazione la parzialità connaturata in qualsiasi tipo di risposta si possa ricevere, non produrrà alcun tipo di beneficio. Continuerà a sussistere una profonda confusione non solo nel nucleo familiare – altalenante tra sguardi fissi nel vuoto, sospiri di rassegnazione e risposte monosillabiche – bensì nell’adolescente stesso, costretto a combattere una battaglia senza gli armamenti necessari.
L’adolescenza e l’orientamento scolastico
Occorre attendere l’adolescenza matura per vedere sfumare parte di quella nebbia che prima limitava la visuale. Sono questi gli anni in cui, anche in virtù della maggiore complessità delle relazioni sociali, si consolida la deduzione permettendo quindi un agire più sistemico, ma soprattutto meno impulsivo e più responsabile. Non bisogna comunque tralasciare la scarsità delle informazioni disponibili circa il mondo del lavoro e le sue infinite sfaccettature; scarsità che, malgrado l’affinata maturità, continua inesorabilmente a permanere. A titolo esemplificativo, va detto che in molti indirizzi attivati presso le scuole secondarie di secondo grado – ad esclusione del Liceo delle Scienze Umane, opzione economico-sociale, del Liceo Scientifico ad indirizzo sportivo e degli Istituti Tecnici e Professionali – sono assenti corsi di diritto e di economia, motivo per cui si giunge alla conclusione del ciclo scolastico senza conoscere gli istituti giuridici più rilevanti, la riscossione dei tributi e le tutele previste da un contratto di lavoro. Definito questo aspetto, la retorica paternalistica cessa definitivamente di esistere; al suo posto il nulla più totale. Nessuno, infatti, pare chiedersi come intervenire per colmare questo ampio divario, né tantomeno quali possano essere i mezzi più opportuni.
Volendo essere oggettivi, sulla scia di quanto detto poc’anzi, va altresì menzionato l’orientamento scolastico offerto sia ex ante, che ex post: sia chiaro, ambedue le opzioni sono utili per “toccare con mano” quanto, di lì a poco, condizionerà il proprio destino; il problema subentra col fatto che le strade poi intraprese molto spesso rappresentano la diretta conseguenza di visioni e aspettative altrui, per l’appunto dei genitori. Alla resa dei conti, comunque, si ottiene un effetto paradossale: famiglie che scelgono al posto dei figli, sfruttando il proprio vissuto come panacea a tutte le titubanze che qualsiasi scelta importante comporta, e figli che si vedono rivolgere interrogativi cui non sanno rispondere – vuoi per la poca esperienza sul campo, vuoi perché essi stessi non conoscono ancora a fondo la propria identità – ma a cui dovrebbero rispondere in tempi celeri e secondo le aspettative gradite.
Cambio di prospettiva
Purtroppo non è tutto: chiedere che cosa si voglia fare da grandi implica il fatto che la sola età adulta possa essere determinante. Rivolgendo lo sguardo al passato, si apprende in realtà l’esatto contrario: la variabile anagrafica è – o dovrebbe essere – l’ultima in ordine di importanza ad essere presa in considerazione quando si tratta di competenze ed attitudini; basti pensare che Goffredo Mameli, non ancora ventenne, scrisse le parole del Canto degli italiani, in seguito noto come Inno di Mameli.
Inoltre, l’interrogativo di cui stiamo trattando toglie attenzione alla vera domanda che andrebbe posta, ovvero: “che tipo di persona vuoi essere?” Quest’ultima, infatti, permetterebbe di scandagliare le rispettive passioni, anche latenti, per poi investire su di esse seguendo le proprie inclinazioni. Insomma, serve un vero e proprio cambio di prospettiva con cui mettere al centro la persona nella sua totalità. Incanalare quest’ultima su un binario fisso e lineare, come detto, è controproducente, oltre che fuori luogo: a fronte di un mercato del lavoro sempre più frammentato e complesso, le multipotenzialità andrebbero quantomeno coltivate poiché, improvvisamente, potrebbero divenire indispensabili.
Nell’attesa che tutto questo si concretizzi, è bene preparare una risposta formale agli interrogativi natalizi; d’altronde, si ripetono puntualmente ogni anno.
A cura di
Fiammetta Freggiaro – Vicedirettrice editoriale vicaria