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    Le nomine in RAI e l’illusione del Campo Largo

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    Il Campo Largo non esiste, non è mai esistito e, di questo passo, mai esisterà. La vicenda delle nomine al CdA RAI in parte lo dimostra. Poteva essere un’occasione per compattare le opposizioni e chiedere una vera riforma – magari la liberalizzazione – della TV di Stato. Si è trasformata nell’ennesimo teatro per le poltrone, dimostrazione del fatto che un posto al sole vale più della coerenza politica. Stavolta gli attori protagonisti sono l’alleanza Verdi-Sinistra e il Movimento 5 Stelle, quelli che da molti, va da sé erroneamente, sono considerati strenui oppositori del governo. Fermi, marcia indietro. Di cosa stiamo parlando? 

    Come funzionano le nomine in RAI?

    Il Consiglio di Amministrazione della RAI è composto da sette membri: uno eletto dai dipendenti RAI, due nominati dal Ministero dell’Economia (presidente e amministratore delegato), quattro dal Parlamento (due votati dalla Camera, due dal Senato). Per prassi, almeno un componente del CdA spetta all’opposizione, così da salvaguardare il pluralismo. Pratica in vigore dalla Riforma della televisione del 1975, le nomine politiche all’interno dell’aziende sono chiamate “Lottizzazione”. Quest’ultima stabiliva il passaggio di potere delle nomine in RAI dal Governo al Parlamento, e di conseguenza una vera e propria spartizione dei canali: RAI 1 alla DC, RAI 2 al PSI, l’appena creata RAI 3 al PCI. Quando si trovavano all’opposizione, la riforma di questo sistema di potere l’han chiesta praticamente tutti: dalla Lega, ai 5S al PD. Ma quando si è trattato di realizzarla, tutti hanno perpetrato gli usi e costumi del passato.

    L’opportunismo della Sinistra Sinistra

    Il dibattito sul rinnovo dei componenti del CdA è iniziato con largo anticipo. Per mesi il Centro-destra unito ha battibeccato sui nomi da proporre in loro quota, arrivando solo dopo l’estate ad un’intesa, con la solita promessa di giungere ad una successiva riforma della televisione. Il Centro-sinistra ha inizialmente contestato la deriva semi-autoritaria della RAI dando la propria indisponibilità a partecipare alla lottizzazione. In seguito, il M5S ha iniziato a deviare da questo assunto, moderando le proprie posizioni ed aprendo ad un dialogo prioritario col governo. I motivi supposti, escludere il PD dalle nomine e guadagnare un ruolo di prim’ordine nella scrittura della nuova riforma tale da ottenere benefici e prebende. Così, giunti al momento del voto in Parlamento, Partito Democratico, Azione, Più Europa e Italia Viva non si sono presentati. 5S e AVS invece hanno partecipato, fatto le loro proposte e ottenuto i posti in CdA. È ormai certo che i prossimi Presidente e AD della RAI saranno rispettivamente Giampaolo Rossi (FDI) e Simona Agnes (FI, figlia di Biagio Agnes, storico ex AD RAI).

    Uniti a giorni alterni, divisi su tutto: quale futuro per la RAI?

    Le liberalizzazioni sono un tema scottante, dai taxi alle concessioni balneari. La RAI dovrebbe far parte di questa lista da sfrondare. Una TV di Stato ha senso di esistere in un’epoca in cui la preminenza del medium-televisione è in costante declino? Secondo molti, è ora di sottrarre il controllo della TV alla politica, vendendo quote dell’azienda e aprendo il CDA come una scatoletta di tonno. Questo consentirebbe anche di limitare gli sprechi di soldi pubblici che spesso si concretizzano in assunzioni di amici, produzioni in mano a sconosciuti conniventi, spinta di personaggi senza talento alcuno ma con responsabilità di livello solo perché schierati o parenti. Il problema è che il tema non è prioritario per tutti: come il lettore saprà, l’informazione è potere, il controllo della produzione culturale è fondamentale nel framing che uno Stato vuole dare di sé stesso. Le opposizioni sono divise anche su questa faccenda, in quanto non c’è una chiara visione comune di che farsene di questa RAI. Scontato, considerando che al solo sentir pronunciare il termine liberalizzazione la maggior parte della sinistra storce il naso e sputa per terra. Ma nemmeno portare quanto accaduto a galla sembra una priorità dei membri del Campo Largo, a parte dei centristi. Schlein preferisce non creare divisioni all’interno delle opposizioni, soprattutto in vista delle regionali di questo autunno. Nel frattempo le proposte per la cosiddetta riforma si sprecano: per i pentastellati il presidente dovrebbe essere nominato dal Quirinale, l’AD dalla Commissione Parlamentare di Vigilanza e il canone dovrebbe essere abolito (vecchio pallino di Salvini, che ad ogni Festival di Sanremo torna a marciarci sopra). La Lega chiede l’aumento dei tetti pubblicitari, lanciando la sfida a Mediaset. Calenda ha bastonato M5S e AVS, additandoli come conniventi al governo, ma ancora le proposte per una riforma non ci sono. Al momento solo i Radicali di Matteo Hallissey stanno spingendo nella direzione che assicurerebbe l’indipendenza del medium, ossia la concorrenza e quindi la liberalizzazione. Resta il fatto che parte dell’opposizione si è fatta irretire dal Centro-destra: il Campo Largo resta un sogno di mezz’estate, durato il tempo di una foto in calzoni e pantaloncini, scioltosi alla prova del nove delle poltrone.

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