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    Lo Spread scivola sotto i 70 punti, ai minimi dal 2009: ma come funziona?

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    Per molto tempo il dibattito pubblico ha associato al famigerato spread concetti come austerità, enorme debito, manovre finanziarie “lacrime e sangue” e la similitudine con il default greco dello scorso decennio. Gli ultimi anni, invece, con una ben più favorevole congiuntura economica, hanno reso possibile una riduzione record dello spread su livelli che non si vedevano dal 2009.

    Lo spread BTP-Bund è tornato sotto la soglia dei 70 punti base in questo inizio di dicembre, un numero che, da solo, potrebbe sembrare meramente tecnico ed utile soltanto agli addetti ai lavori. In realtà esso rappresenta un po’ quella che è la percezione in termini di stabilità/affidabilità dei conti pubblici all’estero. Parliamo dei mercati finanziari, grandi fondi sovrani, fondi pensione e simili, che canalizzano la propria liquidità in opportunità di investimenti.

    Cosa influenza lo spread?

    Per comprendere la portata del risultato occorre partire da cosa sia lo spread, un termine entrato nel lessico quotidiano soprattutto nel mezzo della crisi del debito sovrano del 2011. Da un punto di vista squisitamente tecnico, esso rappresenta il differenziale tra il tasso di interesse decennale pagato da uno Stato (in questo caso l’Italia con i suoi BTP) nel momento in cui prende in prestito risorse sui mercati finanziari ed il tasso di interesse pagato dalla Germania (con i suoi Bund decennali), quest’ultimo considerato livello benchmark di riferimento. 

    Da questa prima definizione si può facilmente dedurre che lo spread si allarghi o assottigli in base ai due Paesi in oggetto. Si misura in “pb” -punti base- e ad ogni 1% di differenziale corrispondono circa 100 punti base.

    Un po’ come avverrebbe a livello intuitivo, fermo restando la necessità periodica di ricorso al finanziamento sui mercati da parte dei singoli stati, l’effettiva capacità di ottenere risorse in grado di far funzionare l’apparato statale è correlata a diverse variabili in gioco: la tenuta dei conti pubblici e la stabilità economica.

    Titoli senza rischio e rischio-paese

    Un paese con conti pubblici in ordine, debito pubblico sostenibile (o avente una dinamica di riduzione), deficit non troppo elevato, riforme per la crescita e che non mettano a rischio la fiscalità di uno stato, così come la stabilità politica (teoricamente correlata con la possibilità di prevedere la politica fiscale adottata e con la possibilità di effettuare riforme), sono tutti indicatori di uno Stato credibile, stabile e sicuro. 

    In una situazione ideale di siffatta natura, con probabilità di default di uno stato vicina allo zero, i creditori avrebbero tra le mani dei titoli di stato “risk-free”, cioè aventi rischio quasi zero, e la loro remunerazione sarebbe pari al solo tasso di inflazione.

    Tanto più la condizione di un Paese si discosta da questa situazione ideale, tanto più per i creditori il rischio di non vedere ripagato il proprio credito aumenta. La conseguenza? Pretendere un rendimento più alto che compensi non solo la componente “risk-free” ma anche il “rischio-paese”, ovvero quel rischio che dipende dalla situazione economica e politica di una data nazione, in quel preciso momento storico. 

    L’esempio attuale francese ci viene in aiuto: l’instabilità politica unita ad una dinamica di crescita del debito pubblico non sostenibile ha fatto salire sensibilmente gli interessi sul debito, sintomatico di una percezione di rischio elevata da parte di coloro i quali andranno a comprare il debito francese. La riduzione della domanda di titoli comporta un aumento degli interessi.

    Un po’ di storia recente

    Nel pieno della crisi del 2011, lo spread aveva superato la soglia drammatica dei 500, arrivando in alcuni momenti vicino ai 600 punti base. Fu un periodo di forti tensioni sui mercati dettate da condizioni economiche e politiche turbolente. 

    È stato necessario mettere a terra delle azioni di politica monetaria molto forti da parte della BCE per ridurre gli spread dei vari Paesi dell’Eurozona. In sostanza la BCE, attraverso il quantitative easing si è sostituita ai mercati con massicci acquisti di titoli di Stato, aumentando la domanda verso quei paesi più fragili e facendo ridurre gli spread. 

    Da allora lo spread italiano ha intrapreso un percorso di riduzione durante i governi Renzi, Gentiloni, Conte, Draghi (salvo riaccendersi leggermente durante il Governo Conte I).

    La situazione ai nostri giorni

    Il traguardo odierno, con lo spread che rompe al ribasso un livello psicologico importante, è il risultato di un insieme articolato di fattori. Alcuni derivano dall’Italia, altri dal contesto europeo e internazionale. 

    Da un lato, il quadro politico nazionale più stabile e una gestione finanziaria percepita come prudente, hanno contribuito a migliorare il posizionamento del Paese agli occhi degli investitori. Dall’altro lato, come visto in precedenza, una parte della compressione dello spread dipende dalle dinamiche tedesche. 

    La Germania, principale locomotiva economica europea, sta subendo una battuta d’arresto: la guerra in Ucraina, con il conseguente stop all’economico gas russo, la perdita di centralità del settore auto tedesco a vantaggio di quello cinese, il mutare delle catene di approvvigionamento di materie prime, l’instabilità politica e le ferree regole fiscali hanno peggiorato progressivamente i fondamentali economici tedeschi. Questi elementi hanno determinato un aumento dei rendimenti dei Bund, che, paradossalmente, contribuisce a far scendere lo spread anche quando i rendimenti italiani restano sostanzialmente stabili. 

    Il calo dello spread, dunque, porta con sé vantaggi immediati e tangibili. Una riduzione del costo di finanziamento del debito permette allo Stato di spendere meno in interessi. Anche per i risparmiatori e gli investitori già in possesso di titoli di Stato, un differenziale più basso si traduce spesso in un apprezzamento dei prezzi dei BTP già emessi, con conseguenti plusvalenze sul mercato secondario.

    Concludendo

    È inoltre importante ricordare che i mercati finanziari, per loro natura, reagiscono con rapidità ad ogni segnale di instabilità. Un episodio geopolitico, un’inflazione inattesa, una revisione delle politiche della BCE o tensioni politiche interne potrebbero produrre oscillazioni rapide e sensibili. 

    Per questa ragione il dato odierno va contestualizzato e relativizzato. Inoltre, esso non tiene conto dell’enorme stock di debito pubblico, della crescita economica asfittica ed in gran parte condizionata ai fondi PNRR che si esauriranno il prossimo anno. Infine, a parità di tasso decennale italiano, quando gli indicatori economici tedeschi miglioreranno, anche grazie al poderoso piano di spesa pubblica recentemente approvato dal Bundestag, lo spread potrebbe ricominciare a crescere.

    La vera sfida per l’Italia resta invariata: trasformare questa fase di fiducia in un percorso sostenibile di crescita e stabilità. La crescita economica è funzione della produttività e della crescita demografica: qualsiasi misura adottata che verta su istruzione, ricerca e sviluppo, tecnologia digitale o a sostegno della crescita demografica sono propedeutiche ad uno sviluppo economico sostenuto e duraturo che non dipende da variabili congiunturali.

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