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    Madre, atleta e sex worker: la storia di Elisa Corda

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    Elisa Corda, 39 anni, madre e moglie, ha vissuto una storia di forza e resilienza, ma anche di lotta contro il pregiudizio. Otto anni fa, la sua vita cambia radicalmente a causa di un grave incidente, che non solo segna il suo destino, ma modifica anche la sua fisionomia, portandola a perdere parte di una mano. Dopo quasi 100 giorni di sofferenza fisica e psicologica, Elisa viene dimessa dall’ospedale, ma il recupero, tanto fisico quanto emotivo, si rivela una sfida complessa.

    Per ritrovare forza e superare il trauma, Elisa intraprende un percorso sportivo nel sollevamento pesi e sci di fondo che la porta a diventare, infine, un’atleta paralimpica nel canottaggio, raggiungendo il traguardo di entrare a far parte della nazionale italiana, con dirette su Rai Sport e partecipazioni ai campionati mondiali. Insieme a suo marito, fonda un’azienda per rappresentare atleti paralimpici, cercando di unire la sua esperienza personale a un impegno professionale di grande valore. Tuttavia, nello stesso anno in cui avvia la sua attività e continua a lottare per mantenere la sua famiglia, arriva la sentenza del tribunale che le attribuisce la responsabilità dell’incidente subito. Un colpo durissimo che pesa gravemente sul suo percorso di vita. Lo stress emotivo e le difficoltà economiche influiscono negativamente anche sulle sue prestazioni sportive. 

    In questo contesto, Elisa prende una decisione che, nelle sue parole, rappresenta una forma di riscatto personale e sociale: diventa una sex worker. Una scelta che solleva molti interrogativi: è conseguenza del suo desiderio di espressione? Una scelta disperata? Oppure il risultato di una donna che rivendica la libertà di usare il proprio corpo come vuole?

    Oggi Elisa affronta a testa alta critiche e pregiudizi, sfidando una società spesso troppo chiusa e retriva per accettare il libero arbitrio (soprattutto quello delle donne). Lo fa anche attraverso i media tradizionali dell’informazione, come dimostrato durante la sua partecipazione a un’intervista condotta da Giuseppe Cruciani negli studi di Radio24, nel noto programma radiofonico “La Zanzara”.

    Perché hai iniziato? Motivi economici? Di rivalsa sociale? Di orgoglio?  

    «Tutto quanto assieme! Prima di tutto, prima di fare il primo euro o dollaro, ne ho parlato con mio marito, ne ho parlato con le nostre famiglie e mi sono fatta tutte le remore possibili e immaginabili riguardo a mia figlia, chiedendo anche a un avvocato tutte le varie tutele.

    Dal punto di vista economico, parliamoci chiaro, era fondamentale, ma se vuoi soltanto dei soldi puoi anche tranquillamente cercarti un lavoro. Quello che cerco sempre di sottolineare è che, ovviamente, all’epoca, quando ho iniziato, non lo sapevamo ancora, non fai questo solo perché hai bisogno di soldi, e se non hai una componente esibizionistica che puoi in qualche modo tirar fuori! Anche quel sentimento di rivalsa. In quel momento l’ho vista come: “Sai che c’è? Adesso ti faccio vedere che mi metto in gioco e ci metto la faccia!”, anche in quel senso, che era totalmente provocatorio, oltre che economico e disperato, se vuoi, in un certo momento.»

    Hai trovato solidarietà e collaborazione tra chi svolge il tuo stesso mestiere? Ci sono state occasioni di confronto? 

    «Nella piattaforma? Sì! Ovviamente ci sono diverse pagine di promozione che si usano su OF per scambi di pubblicità e quant’altro, e da lì, non appena letta la mia storia, chi vendeva servizi di pubblicità ci ha fatto molte volte degli sconti, del tipo: “Voglio essere solidale con la tua battaglia”. E tra creator sì, è capitato sia per la mia storia, sia per il fatto che ci sono proprio dei gruppi di ‘aiuto’ su come gestire determinate dinamiche o addirittura determinate persone che è meglio bloccare e quant’altro. Questo sia dipendenti direttamente dalla mia storia, sia tra colleghi, in termini di supporto.»

    Nel nostro Paese effettivamente mancano delle basi normative e unirsi può essere utile, somigliando quasi a un sindacato. Cosa dovrebbe fare lo Stato? Cosa chiederesti a un politico? 

    «Ecco, io semplicemente, non comprendo. Fondamentalmente mi sembra un po’ il gioco dell’elefante rosa in mezzo alla stanza: vogliamo fare finta che certe realtà non ci siano, o non regolamentandole magari si vuol cercare di disincentivarle, quando questo mercato è uno dei più quotati e ci sono persone che fanno delle cifre astronomiche. Quindi, è come non voler porre l’attenzione sul problema, quando fondamentalmente non c’è nulla di male. Non deviamo nemmeno dal discorso, cioè, si può parlare di prostituzione digitale, è vero. Da Cruciani ci sono tante che si arrabbiano per questa parola, ma io – se hai sentito la mia intervista – dico: chiamiamola con il suo nome. È vero, prostituzione digitale. Ma fondamentalmente sono convinta del fatto che andare a lavorare tutti i giorni per un datore di lavoro sia, in qualche modo, una forma di prostituzione, perché io vendo il mio tempo, vendo il mio corpo. L’ho fatto per tanti anni, ma anche altre persone lo fanno per un’azienda, come ho fatto io. Perché dovrebbe essere diverso? Per pudore? Imbarazzo o bigottismo? Credo che il nostro sia un Paese molto chiuso.»

    Pensi quindi che la nostra società non sia abbastanza evoluta? Alla fine chi ci rappresenta nelle istituzioni sembra non voler legiferare sul tema. 

    «Innanzitutto, mi verrebbe da dire che, in alcuni casi, normalizzarlo sarebbe utile. È vero che ci sono tante realtà particolari, e alla Zanzara se ne sentono molte, mettiamola così. Odio giudicare e non voglio essere la prima a farlo, ma fondamentalmente mi reputo una persona estremamente normale, o meglio, una persona che ha 3200 interessi diversi e quindi non capisco perché, già a livello di informazione, ci sia tutta questa paura o questo scandalo nel parlare di determinati argomenti. Per farti un esempio, quando vado a fare le mie testimonianze a scuola, ovviamente dipende dall’età dei ragazzi, si parla di istituti superiori, quando racconto la mia storia da atleta, io da subito ho messo in campo il fatto che, parlando del periodo da gennaio in poi, dovrei togliermi la maglia della nazionale, perché portare avanti la mia storia comporta anche questo. Informando e combattendo, sto cercando di contrastare una sorta di caccia alle streghe che mi sembra assurda. Quando sono andata ad Amsterdam, mi immaginavo, da ciò che mi raccontavano, di trovare Sodoma e Gomorra. Invece, ho trovato una situazione talmente civile che noi, nelle nostre strade, senza neanche avere un quartiere a luci rosse, non abbiamo.»

    Pensi al sex work come uno strumento di autodeterminazione? Soprattutto nel contesto femminile. 

    «Allora, sì, anche se ti parlo chiaramente del fatto che mi sono posta molto questo quesito, ovvero il classico tema della mercificazione del proprio corpo e quant’altro. Ora, ci sono 3000 scuole di pensiero. Io posso avere la mia, anzi, io ho la mia. Sicuramente vai a vendere te stessa e vai a vendere i tuoi contenuti, quindi sfrutti il tuo corpo per gli scopi più antichi del mondo, per gli uomini. Quindi, in qualche modo, mercifichi te stessa. Vero? Assolutamente sì. Però, nel mio caso, questo mi ha trasmesso anche un sacco di forza in me stessa, di sicurezza, e di altro. Un modo per dire: “Cavolo, però se dal primo mese, da quando sono partita da zero, sono arrivata a fare uno stipendio molto più che ambizioso, anche quella è stata una forma di autodeterminazione, di autoaffermazione”. Nel dire: “Allora avevo evidentemente delle risorse che non sapevo di avere, una comunicatività che non sapevo di avere”. Anche in quel caso, per me, è stato un modo di portare me stessa anche in quel mondo, pur essendo diversa da tante persone, magari anche più belle e “fisicate”. Ma c’è il modo di trovare la propria nicchia, il proprio spazio anche in quel senso. Dal punto di vista fisico e, come dico sempre, anche dal punto di vista del rapporto di coppia con mio marito, questo ha portato un sacco di giovamento.»

    In merito a questo, com’è la vita sentimentale di una sex worker? 

    «Innanzitutto, prima di incontrare mio marito, non sono stata assolutamente fortunata a livello di partner, sia fuori che dentro il letto. Onestamente, da quando ho incontrato mio marito, quattro anni fa, le cose sono sicuramente cambiate: ho potuto capire che esiste anche una parte buona negli uomini. Non mi sarei sicuramente approcciata al mondo di OnlyFans se non avessi avuto accanto a me una persona con una mente decisamente più aperta della mia. All’inizio, infatti, ero una di quelle che avrebbe potuto giudicare male questo mondo, semplicemente perché non lo sentivo affatto adatto a me. Invece, avendo accanto una persona che, a differenza della maggior parte degli uomini, non si perde in frasi come “Non metterti quel vestito” o “Non pubblicare quella foto”, ho capito che non c’è nulla di sbagliato, anche se una donna ha accanto un partner e non sta cercando nulla. La maggior parte delle critiche, infatti, si basa sul “Chissà cosa cerchi mostrandoti così”, ma lui mi ha aiutato a rinsaldare la mia sicurezza e a capire che non sto facendo nulla di sbagliato, neanche nei confronti di mio marito. Anzi, questo ha sicuramente rafforzato la nostra intimità, perché ci sono momenti in cui, facendo contenuti di coppia, si unisce l’utile al dilettevole. Fondamentalmente, stiamo bene insieme, ci attraiamo, ci uniamo. E posso dire, da persona molto pudica, che a un certo punto, che ci sia o meno una telecamera accesa, non mi interessa neanche più. E le persone colgono questo.»

    Invece la tua famiglia come ha appreso questo percorso? 

    «All’inizio avevo un po’ paura. Nel senso di comunicare questa scelta condivisa da me e mio marito, durante una classica cena di gruppo. Io avevo solo mia mamma, perché mio padre è mancato nel 2020. Gavino (marito di Elisa – N.d.A.), invece, ha entrambi i suoi genitori, più sua nonna, che ha oltre 80 anni. Nonostante questo, abbiamo trovato persone che ci hanno detto: “Va bene, voi siete felici? Voi siete d’accordo? Cosa dovremmo dire noi?”. Mia mamma, invece, è stata la prima a dirmi: “Ti ho dato un corpo, se è una cosa che puoi sostenere tu, che va bene a te, e visto che vuoi portare avanti anche la tua causa e ti senti di fare così, chi sono io per dirti di no?”. Spero di essere questo per mia figlia, se un domani prenderà qualunque decisione, perché spesso sembra che se la madre fa una scelta, allora la figlia sia destinata a diventare come lei.»

    Cosa dirai a tua figlia se dovesse farti domande sul tuo lavoro?

    «Come ti dicevo prima, mia figlia è stato il tasto più dolente, perché nel momento in cui sei mamma, la tua vita non è più solo la tua. Ho pensato, più che altro, al fatto che potessero esserci problemi con l’altra parte genitoriale. Non ho mai edulcorato troppo la realtà a mia figlia, ma gliel’ho sempre raccontata in modo adatto ai suoi sei anni. Quando dovrò spiegarle questo, e se mi chiederà qualcosa al riguardo, come dico sempre, e come ho detto anche alla Zanzara, le dirò che mamma ha cercato di fare tutto quello che poteva e che si sentiva di fare, per portare avanti determinate battaglie. Non solo quella economica, ma anche quella di rompere certe barriere che non mi piacciono, e sconfiggere pregiudizi sciocchi, obsoleti e superati. Le insegnerò a non giudicare.»

    Ricevi critiche per ciò che fai? 

    «Ad esempio, su TikTok è venuta fuori una signora che mi ha detto: “Con i tuoi video non pensi di reclutare ragazzine che reputano questo facile e che si guadagna facilmente?”. A parte il fatto che non ho bisogno di dissuadere le ragazzine che oggi vogliono mettersi in gioco, anzi, secondo me hanno molto da insegnare a me, che ho 39 anni, e a te. Non penso assolutamente di fare propaganda in questo senso.

    La cosa più bella e più brutta del tuo lavoro.

    «Allora, la cosa più bella è che, al di là del fatto che quando faccio un servizio fotografico, di solito è mio marito a scattarlo, io mi possa sentire veramente bella. Non sempre, non tutto il giorno e tutti i giorni, ma ci sono stati momenti in cui ho pensato: “Beh, nonostante tutto, per come stai combinata, complimenti! Perché ti vedo bene!” È una bella cosa per tutte, amputate e non, innanzitutto apprezzarsi e sentirsi apprezzate dalla persona che ti sta accanto. A chi non piacerebbe piacere? La monetizzazione di questo è, a maggior ragione, uno strumento che ti dice: “Cavolo, piaccio davvero!”, senza contare i messaggi. Soprattutto, pensavo che su OnlyFans ci fosse solo gente interessata allo spettacolo. Invece, posso assicurarti che molte volte ho ricevuto più messaggi di stima e sostegno per la mia storia da persone là dentro che da quelle fuori o da chi mi conosce da una vita. Persone che mi hanno detto: “Oltre ad essere una bella donna, apprezzo i tuoi contenuti, hai le palle e ti apprezzo perché sei una donna vera con un vissuto vero”. La parte brutta, purtroppo, è proprio questa: ci sono tante persone che pensano che solo perché pagano possano trattarti come un pezzo di carne. Ma lì ci sono io, o nel caso, appunto, c’è mio marito che mi aiuta a ricordare che non tutto è in vendita grazie ai soldi. I tuoi soldi non possono comprare il diritto di mancarmi di rispetto o di farmi sentire come un delivery del McDonald’s.»

    Smetterai mai? 

    «Beh, mai dire mai! Quindi, mi fai una domanda da un milione di dollari. Nel senso, può essere… non lo so. Fino a cinque mesi fa non avrei scommesso un euro nel fare tutto questo. Se qualcuno mi avesse raccontato tutto ciò, avrei probabilmente risposto: “Smetti di drogarti, stai accusando una sostanza!”»

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