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    Le origini del conflitto a Gaza e l’illusione della pace

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    Sostituzione etnica? Un’espressione forte, che sembra sancire l’impossibilità di una soluzione definitiva alle tensioni che da sempre avvolgono la Terra Santa. A sostenere questa visione, in linea con il diktat trumpiano, vi è una figura che ha plasmato la politica dello Stato ebraico negli ultimi vent’anni: Benjamin Netanyahu, una sorta di “rockstar” della scena politica israeliana, capace di orientare le sorti del Paese con il suo pragmatismo e la sua strategia di potere. Ma è davvero lui il principale responsabile di questo conflitto? E soprattutto, spostare i palestinesi da Gaza verso altre destinazioni può davvero essere considerata la soluzione più sensata?

    La pace del tycoon

    Quella proposta da Trump è una soluzione crudele, ma cinica. Il Presidente suggerisce di trasferire circa 2,2 milioni di palestinesi residenti a Gaza verso altre destinazioni arabe, in particolare l’Egitto e la Giordania. Una soluzione che la stampa internazionale ha definito una mobilitazione di massa, ma che rappresenta a tutti gli effetti una vera e propria sostituzione etnica. Oltre ciò, il tycoon propone di trasformare questo lembo di terra in una “riviera del Medio Oriente”; un piano, quest’ultimo, che prevede la ricostruzione di Gaza dalle sue macerie affinché possa diventare una destinazione turistica di lusso, una sorta di Costa Azzurra in salsa mediorientale.

    Ma come siamo arrivati a questo? Come possiamo pensare a soluzioni così ciniche alla guerra? E soprattutto, di chi sono le responsabilità di questo conflitto?

    La guerra di Hamas

    Le cause che spingono gli uomini — e dunque gli Stati — alla guerra sono molteplici: l’egoismo, la vendetta, la scarsità di risorse, la frenetica rincorsa alla storia o il terrore di esserne cancellati, dissolvendosi nell’oblio. Il 7 ottobre 2023, le brigate al-Qassam, braccio armato di Hamas, hanno perpetrato una delle più sanguinose stragi nella storia di Israele, seminando il panico tra la popolazione civile. La risposta dello Stato ebraico non si è fatta attendere; eppure, come spesso accade, a pagare il prezzo più alto sono stati coloro che le armi non le hanno mai impugnate.

    Sorge dunque spontanea una domanda: come si è potuti giungere a questa tragedia? Come ha fatto un gruppo di terroristi ad attaccare uno degli Stati militarmente più avanzati al mondo? Com’è possibile che il Mossad, agenzia d’intelligence operante all’estero, non abbia intercettato nulla? Dov’era l’esercito mentre i terroristi oltrepassavano i confini nazionali? Di chi sono le responsabilità di quanto accaduto? Le risposte si trovano nelle dinamiche della politica interna israeliana, nell’impiego delle forze d’intelligence e dell’esercito e, soprattutto, nel ruolo di un uomo che da oltre trent’anni guida la scena politica del Paese.

    Benjamin Netanyahu

    Benjamin Netanyahu assume per la sesta volta la carica di Primo Ministro il 29 dicembre 2022, guidando Israele in una fase di drammatiche tensioni. Figura centrale della politica israeliana, tra visione liberale e pragmatismo bellico, si trova ora a fronteggiare una crisi senza precedenti.

    Dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 è trascorso oltre un anno e Israele lotta ancora per la liberazione degli ostaggi. Ma quale ruolo ha avuto Netanyahu in questa tragedia? Già dalle prime ore del conflitto, la sua leadership è finita sotto i riflettori. Come ha potuto un leader esperto non cogliere i segnali di un attacco di tale portata? Dopo l’assalto, Netanyahu ha dichiarato senza esitazione: “Israele è in guerra”, promettendo così la distruzione totale di Hamas. Tuttavia, il suo governo ora vacilla: i consensi crollano, le proteste si moltiplicano, e il futuro politico del leader del Likud è più incerto che mai.

    L’analisi della sua figura va oltre il singolo evento. Come osserva Kenneth Waltz in Teoria della politica internazionale11, il ruolo della sua figura – il così detto paradigma dell’individuo – è cruciale nel determinare guerre e strategie globali. Attraverso questa lente, Netanyahu incarna il dilemma di un leader che detiene un potere immenso, ma la cui responsabilità nella crisi odierna è ancora tutta da decifrare.

    Ma prima di tutto: chi è Bibi?

    Nato a Tel Aviv il 21 ottobre 1949, Benjamin Netanyahu è il leader del Likud e il politico più longevo nella storia di Israele, con sei mandati da Primo Ministro. Formatosi negli Stati Uniti, la sua impostazione anglosassone si riflette nel suo approccio politico, che emerge con decisione nel 1996, quando assume per la prima volta la guida del governo israeliano. Nei due decenni successivi, Netanyahu promuove una crescita economica sostenuta attraverso privatizzazioni, riduzione della spesa pubblica e riforme del welfare, innalzando anche l’età pensionabile. Questo modello ha contribuito a quello che è stato definito un “miracolo economico”. Tuttavia, la questione palestinese rimane un tema costante nel suo discorso politico, rivelandosi una leva cruciale per la sua longevità al potere.

    Nel 2020 viene accusato di corruzione, frode e abuso d’ufficio, in relazione a modifiche legislative che avrebbero favorito aziende e uomini d’affari. Esponente della linea dura contro il terrorismo —con un approccio vicino alla dottrina americana del deep engagement— si trova oggi a gestire il più grave attacco contro Israele degli ultimi decenni. L’assalto di Hamas del 7 ottobre 2023 non ha solo colpito l’apparato militare, ma soprattutto la popolazione civile, scatenando un’ondata di proteste interne e mettendo a rischio la stabilità del suo governo.

    L’ingiusta riforma 

    Nel 2022, con la nascita del suo nuovo governo, Benjamin Netanyahu propone una riforma giudiziaria destinata a scuotere l’assetto democratico di Israele. Il provvedimento prevede una “clausola di annullamento” che permetterebbe alla Knesset, con una maggioranza semplice, di respingere le decisioni della Corte Suprema, riducendone l’indipendenza e rafforzando il controllo politico sulla giustizia. Questa proposta scatena proteste diffuse, con il timore di una deriva autoritaria.

    Tuttavia, il Likud non ha più la forza per governare da solo: gli scandali di Netanyahu e la crisi interna al partito ne indeboliscono la leadership. Per mantenere il potere, il premier costruisce allora la coalizione più a destra della storia di Israele, alleandosi con partiti ultraortodossi e con Itamar Ben-Gvir, leader di Otzma Yehudit, noto per le sue posizioni estreme contro il popolo palestinese. Questa alleanza segna un punto di svolta: il governo assume un controllo sempre più invasivo sugli apparati di sicurezza, con conseguenze politiche e militari oggi evidenti.

    Mossad e Shin Bet al servizio del potere

    L’impiego del Mossad è stato al centro di accesi dibattiti nella politica israeliana. Celebre per le sue operazioni su scala globale, l’agenzia di intelligence è stata strumentalizzata dal governo Netanyahu per fini politici. In particolare, l’attenzione dei servizi segreti si è spostata da Gaza — ritenuta sotto controllo — verso Iran e Cisgiordania, in linea con una nuova strategia dettata dalle dinamiche geopolitiche. Il Libano, con Hezbollah, rappresenta una minaccia costante, ma è l’Iran il principale antagonista della strategia israeliana, sostenendo Hamas e Hezbollah con finanziamenti e una retorica ostile all’esistenza di Israele. 

    Tuttavia, il cambio di postura di Israele non risponde solo a esigenze di sicurezza. Il prezzo della stabilità politica di Netanyahu, già indebolito dal fallimento della riforma giudiziaria, è stato l’ingresso nel governo di figure come Ben-Gvir, esponenti della destra radicale con ambizioni espansionistiche in Cisgiordania. Il trasferimento di risorse militari nella West Bank è quindi più un compromesso politico che una reale necessità strategica.

    Anche lo Shin Bet ha subito interferenze simili. Quando i suoi vertici hanno avvertito del rischio di un’escalation in Cisgiordania, sono stati derisi dalla maggioranza. Lo stesso è accaduto con l’esercito israeliano, che non era schierato lungo le frontiere di Gaza, ma concentrato altrove, seguendo la linea della destra ultranazionalista.

    Conclusioni

    La Terra Santa è destinata a ritrovare mai la sua sacralità? Oggi, le responsabilità di Netanyahu appaiono chiare, sotto gli occhi di tutti. Costringere migliaia di persone ad abbandonare la propria terra non cancellerà l’odio profondo tra i due popoli, ma alimenterà un mostro ancora più feroce pronto a risorgere dalle ceneri di Hamas.

    La storia recente – dall’Afghanistan ad altri conflitti – insegna che il terrorismo non si sradica con le bombe, ma con l’intelligence, e in questa guerra, infatti, si è sbagliato tutto. La crudeltà, ormai evidente su entrambi i fronti, rende ogni prospettiva di pace sempre più remota. Quante vite dovranno ancora essere spezzate prima che ebrei e arabi possano trovare dignità, sicurezza e spazio in una Terra Santa che non conosce più pace?

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    1. Kenneth Waltz, Teoria della politica internazionale, 1979 ↩︎

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