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    Piccoli borghi e innovazione: la lotta contro lo spopolamento

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    Borghi fantasma, bassa densità abitativa, giovani in fuga, rarefazione dei servizi: lo spopolamento delle aree interne italiane è una frattura silenziosa che riguarda più della metà dei comuni del Paese. Si tratta di territori lontani dai principali poli di servizi sanitari, scolastici e di mobilità, abitati da oltre 13 milioni di persone, sempre più anziane. 

    Le aree interne italiane – territori spesso montani, collinari o rurali – sono da anni teatro di un progressivo spopolamento che sta mettendo a rischio la loro stessa sopravvivenza sociale ed economica. Secondo il Piano Strategico Nazionale per le Aree Interne (PSNAI), oltre l’80% di questi comuni perderà almeno il 25% della popolazione entro il 2043, con picchi che arrivano al 93% in alcune zone del Mezzogiorno.

    LE CAUSE DEL DECLINO

    Lo spopolamento delle aree interne è un fenomeno complesso, alimentato da molteplici cause. Innanzitutto, il calo demografico dovuto alla diminuzione delle nascite e all’invecchiamento della popolazione. A questo si aggiunge l’emigrazione dei giovani verso le città, attratti da maggiori opportunità lavorative, servizi e infrastrutture. 

    La scarsità di servizi essenziali come trasporti pubblici, assistenza sanitaria e connessioni digitali ad alta velocità rende difficile la vita quotidiana e il lavoro, alimentando un circolo vizioso di abbandono. Esso ha conseguenze profonde: il rischio è la perdita non solo di residenti, ma anche di identità culturale, tradizioni e di un patrimonio ambientale prezioso che caratterizza molte di queste aree. 

    Nel 2025, poi, il nuovo Piano Strategico Nazionale per le Aree Interne (PSNAI) ha introdotto un concetto discusso, quello dello “spopolamento irreversibile”, vale a dire aree troppo deboli demograficamente, economicamente e socialmente per poter tornare a crescere, insomma una trenodia di ‘accompagnamento alla buona morte‘. 

    La reazione è stata durissima: l’Unione Nazionale dei Comuni Montani ha chiesto di rimuovere la formula, oltre 150 tra sindaci, docenti universitari, studiosi, urbanisti e operatori culturali hanno firmato un appello pubblico, chiedendo di ritirare una definizione che rischia di legittimare l’abbandono politico e istituzionale di intere comunità. I firmatari chiedono una revisione del Piano, invitano i Consigli comunali a pronunciarsi in merito e offrono collaborazione per costruire strategie concrete di rilancio.

    LA RIGENERAZIONE COME CHIAVE DI VOLTA

    Al di là dei piani nazionali, la realtà è fatta di esempi che raccontano una verità più sfaccettata, fatta di adattamenti, esperimenti e resistenze. Nonostante la gravità della situazione, non mancano esperienze di rigenerazione e ripopolamento che mostrano come un’alternativa allo spopolamento sia possibile. Il concetto chiave è quello sociologico di “restanza”, ossia la scelta di restare nei territori decentrati attraverso strategie mirate che mettano al centro la valorizzazione delle risorse locali, l’innovazione e la partecipazione attiva delle comunità. 

    Lo dimostrano borghi virtuosi come quello di Ostana (Piemonte), o Castel del Giudice (Molise), dove una RSA comunitaria, un meleto sociale e un albergo diffuso hanno ricostruito senso di comunità e occupazione. O ancora, le esperienze di telemedicina, rigenerazione forestale, e reti scolastiche intercomunali che, in alcune zone montane, hanno iniziato a invertire la tendenza.

    In Abruzzo, una delle regioni più colpite dal declino demografico (–6,2% nei comuni montani dal 2015 al 2022), nasce il Progetto Restanza. L’iniziativa propone una strategia multidimensionale: sanità di prossimità, digitalizzazione, sostegno a giovani e famiglie, il “biglietto unico” per studenti, la dotazione di ambulanze con ecografi mobili e una governance territoriale più snella. 

    ESEMPI VIRTUOSI 

    Per “restanza” non si intende restare per rinunciare, ma come scelta attiva e generativa. Occorre diffondere iniziative già adottate con successo in altre Nazioni e in alcune aree lungimiranti della Penisola: investimenti nelle infrastrutture digitali, come la banda larga e il potenziamento del lavoro da remoto per rendere più attrattive le aree interne, permettendo a giovani e professionisti di restare o di trasferirvisi. 

    Sullo stesso piano, il rilancio dell’agricoltura sostenibile e delle economie locali, valorizzando prodotti tipici, promuovendo filiere corte e nuove forme di agricoltura sociale per contribuire a creare lavoro e a mantenere vivi i territori, oltreché il patrimonio forestale e agroalimentare. Infine, puntare sul turismo slow, che rappresenta una risorsa economica e un incentivo per la cura e la tutela dei territori. 

    È inoltre fondamentale garantire i servizi essenziali di prossimità, per evitare l’isolamento e promuovere politiche di incentivazione, come agevolazioni fiscali e sostegno all’imprenditoria giovanile per l’insediamento di nuove famiglie. 

    DAL PASSATO PER IL FUTURO 

    Le difficoltà restano enormi: solo il 19% dei progetti previsti dal ciclo 2014–2020 della Strategia Nazionale per le Aree Interne risulta completato e preoccupa l’assenza, nella legge di Bilancio 2025, del contributo unico ai piccoli comuni sotto i 1.000 abitanti, sostituito da altre misure. 

    La sfida è doppia: invertire il declino strutturale con investimenti veri, duraturi e coordinati e cambiare narrazione, smettendo di parlare di territori “perduti” e iniziando a considerarli laboratori del futuro. 

    Non si tratta di raccontare la favola del declino arrestato, ma di creare un modello di sviluppo che valorizzi l’unicità dei luoghi e promuova nuove forme di benessere. Le aree interne sono il passato da cui può rinascere un’Italia più equa, sostenibile e coesa. A patto che il Paese scelga davvero di restare.

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