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    Polmoni d’acciaio: l’Ilva di Taranto e il disastro ambientale

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    Salute o lavoro? Questa è la domanda che i tarantini si pongono da troppi anni senza trovare risposta. Un quesito che, tuttavia, in un Paese civile non dovrebbe nemmeno esistere, poiché salute e lavoro sono due elementi essenziali per la pacifica convivenza tra uomo e industria, tra territorio e impresa. Ma Taranto non è una città come le altre, e il dolore che ha colpito questa terra continua incessante a lacerare le esistenze dei suoi abitanti, costretti ogni giorno a convivere con fumi tossici e polveri cancerogene.

    Ma cos’è l’Ilva? 

    Oggi, sicuramente, l’Ilva non è l’Ilva. Quella che i più anziani tarantini chiamano ancora Italsider e che, attraverso la privatizzazione negli anni ’90, è diventata Ilva, è il complesso siderurgico più grande d’Europa. Ai tempi d’oro, solo Taranto contava 20.000 dipendenti, escluso l’indotto. Oggi, questo maestoso colosso industriale è gestito da Acciaierie d’Italia S.p.A., una società in amministrazione straordinaria sotto il controllo diretto dello Stato italiano.

    Secondo le stime più recenti, con i suoi 5 altiforni (non tutti pienamente operativi), l’ex Ilva produce oltre 3 milioni di tonnellate di acciaio all’anno. Questo avviene attraverso i suoi numerosi reparti, che spaziano dai parchi minerali agli AF (per la lavorazione di ferro e ghisa), fino alla zona di zincatura e rivestimenti, facendo così conquistare all’impianto il primato italiano nella produzione di acciaio. Lo stabilimento, anche grazie alla presenza di circa 200 km di linee ferroviarie interne per la mobilitazione di materie prime come minerale di ferro e carbon coke (carbone metallurgico), si estende su un’area complessiva di oltre 15 milioni di metri quadri. Una dimensione che non ha eguali nell’industria italiana ed europea.

    Taranto, l’Ilva e la “dottrina dell’operaio

    Partiamo da un presupposto: Taranto non è Ilva. Questa città, fondata nel 706 a.C. dai Parteni – un gruppo minoritario della Sparta antica – conta oggi circa 200.000 abitanti. La sua storia, i suoi culti e le sue disgrazie sono stati tramandati da generazione in generazione da secoli, costituendo sia croci che delizie. Nota per i suoi frutti di mare e per il litorale verde smeraldo, Taranto, o meglio i tarantini, vivono dal 1965, anno di fondazione della fabbrica, una costante e opprimente metamorfosi kafkiana: da pescivendoli a operai, da contadini a carpentieri, da zappatori a cantieristi.

    Non vi è dubbio che se oggi Taranto può definirsi città, lo deve principalmente alla grande industria. Sulle rive dello Ionio, infatti, si trovano una raffineria ENI, una delle aree portuali più importanti del Mediterraneo e, appunto, l’ex Ilva. Una serie di impianti che costituiscono un asset economico di rilevanza nazionale, con un impatto significativo sul PIL e oltre 10.000 posti di lavoro. Tuttavia, se da un lato questo ha trasformato un piccolo borgo in una città medio-grande, dall’altro ha condannato migliaia di vite a subire l’inferno del tumore, malattie invalidanti derivanti dall’esposizione a sostanze tossiche e, infine, la morte.

    I tarantini, infatti, sono ogni giorno esposti a ingenti quantità di particolato fine, diossine, ossidi di azoto (NOx), biossido di zolfo (SO2) e metalli pesanti come cadmio, piombo e arsenico, oltre a materiali di scarto, fumi e polveri cancerogene provenienti principalmente dalle cokerie e dagli altiforni. Ma, oltre a un’evidente alterazione della salute psicofisica dei cittadini, tutti, me compreso, siamo stati figli della “dottrina dell’operaio”.

    La metamorfosi

    Sono nato nel rione Tamburi, un’area residenziale (estremamente) adiacente all’Ilva, e sono cresciuto nel quartiere Paolo VI, dove tutto sembra essere sempre uguale, dove lo spazio e il tempo sembrano essersi congelati a quel Natale del 1968, quando il Santo Padre – Paolo VI appunto – celebrò la nascita di Cristo tra gli operai dell’Italsider, all’interno delle mura della fabbrica. 

    Questo quartiere nasce tra gli anni ’60 e ’70 per accogliere i lavoratori della siderurgia tarantina. È un periodo di forte sviluppo per la città, che è sottoposta a un massiccio processo di urbanizzazione, coinvolgendo vari attori locali, tra cui quelli industriali. All’epoca, Taranto era una città florida, ricca e prosperosa, che da piccolo borgo pugliese cominciava a percepirsi come una grande città del Sud. Grazie agli stipendi dell’Italsider, gli operai potevano permettersi un mutuo, una macchina, una famiglia e perfino una seconda casa al mare o tra gli ulivi della Valle d’Itria. L’acciaio non rappresentava solo il fine ultimo di un processo industriale, ma un sogno italiano che, dal dopoguerra fino ai giorni nostri, è rimasto impresso nel nostro tessuto culturale e sociale.

    La gente era ignara. Lo erano i miei nonni, lo erano i loro fratelli, tutti ex operai e tutti sottoposti allo stesso male. In realtà, lo siamo stati anche noi più giovani, che abbiamo scoperto la problematica ambientale solo nel 2012, quando il vento delle proteste dei Liberi e Pensanti ha cominciato a fischiare nelle vie della città. L’inquinamento, i morti di tumore, i reparti di oncologia pediatrica dove i bambini venivano intubati, e la crisi economica dovuta all’eccesso di offerta di acciaio hanno posto le basi per rivalutare quanto l’industria pesante – o meglio, questo tipo di industria – fosse essenziale per il territorio. Ma questo acciaio, per quanto maligno, è difficile da abbandonare, anche quando a pagarne il prezzo è un neonato. 

    Ricordo perfettamente la mia infanzia nel quartiere Paolo VI. Frequentavo la scuola Sandro Pertini e da bambino le maestre, come di consueto, ci davano un pezzo di carta da far firmare ai nostri genitori per poter uscire dalle classi per una gita. Ma questi tour extra-scolastici non erano rivolti al Museo Marta di Taranto, una delle perle della storia antica del Sud, né per esplorare la ricchezza biologica delle acque del Mar Piccolo e del Mar Grande, i due mari che circondano la città. Non eravamo nemmeno diretti al Duomo della città e ai suoi meravigliosi affreschi. 

    Al contrario, le nostre maestre, forse anche loro ignare di tutto, volevano portarci in una visita guidata all’Ilva, per vedere come si produce l’acciaio, per osservare come i nostri genitori portavano il pane a casa. Queste visite le ho fatte io, i miei compagni, i miei amici, le hanno fatte i miei genitori, e le hanno fatte tutti i figli della città di Taranto. Perché per creare industria non basta solo posare i mattoni che reggeranno le ciminiere, ma sono necessarie le basi culturali per trasformare un popolo di “cozzari” in operai specializzati. È necessario che tutti affrontino la metamorfosi posta dalla “dottrina dell’operaio”. 

    Taranto, i media, il riscatto culturale

    Ciò che mi ha sempre impressionato circa la storia di questo imponente impianto è il modo in cui i mezzi di comunicazione trattano l’argomento. Invito ora il lettore a fermarsi un momento e cercare, su qualsiasi motore di ricerca, la parola Ilva. I risultati saranno notizie che riguardano investimenti per aumentare la produzione, per la manutenzione degli altiforni, per rilanciare l’impresa siderurgica e per garantire i posti di lavoro. Pochissime, se non nessuna, delle testate rilevanti si soffermano su una cosa fondamentale: se è vero che dentro l’Ilva lavorano migliaia di persone, è altrettanto vero che attorno all’Ilva, contando la provincia di Taranto, vivono oltre mezzo milione di anime, quotidianamente sottoposte ai veleni della fabbrica.

    Puntare sull’industria è fondamentale. L’industria, e in particolare quella pesante, è uno dei principali motori economici, se non il cuore pulsante, dell’economia di un paese che può definirsi ricco, prospero e forte. Ma è altrettanto importante considerare la salute e la responsabilità d’impresa. È essenziale anche tutelare chi ha perso il lavoro a causa dell’Ilva: contadini, pescatori e allevatori che hanno dovuto abbattere il proprio bestiame perché nei formaggi è stata trovata diossina. È fondamentale anche promuovere le iniziative culturali della città, soprattutto in una terra dove l’abitante medio non vede prospettive oltre l’acciaio, dove gli spazi di aggregazione sono ormai nulli e dove la gente punta solo a scappare, a fuggire e a salvarsi.

    Tuttavia, oggi c’è un riscatto culturale, anche se minimo. Se è vero che l’acciaio ha ucciso, è anche vero che questo ha portato alla fioritura di numerosi artisti e cantautori che stanno portando le disgrazie e le virtù di questa terra sotto i riflettori del nostro Paese. Ad esempio, Fido Guido, 

    Zakalicious, Michele Riondino, Diodato e ancora Kid Yugi. Tutti artisti che raccontano cosa significa vivere nella città dei fumi, che descrivono la coesistenza poco pacifica con gli altiforni, visibili da ogni angolo della città e di quelle ciminiere alte e ritte che decorano lo skyline della città spartana.

    Conclusioni

    Voglio concludere questo pezzo dedicando le ultime parole a una persona che non ho mai conosciuto, ma che certamente ha fatto tanto per le persone che amo e per la mia terra: Massimo Battista. Ex operaio dell’Ilva, consigliere comunale e combattente per la libertà, sempre in prima linea per denunciare gli orrori della siderurgia sul territorio. Massimo si è spento lo scorso 7 ottobre, alla giovane età di 51 anni, a causa di quella stessa malattia che, ormai, sembra essere diventata il vero marchio di fabbrica della nostra città.

    Che la sua testimonianza e il suo lascito politico possano riecheggiare nelle orecchie di chi non vuole ascoltare, di chi ha girato la faccia, di chi, senza alcuno scrupolo, continua a ignorare una costante e violenta violazione dei diritti umani fondamentali.

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