Le mura, le sbarre e le celle sono la traduzione materiale di un’idea politica di ordine e di controllo. Come ricordano molti studiosi, le trasformazioni che avvengono dietro quelle mura anticipano spesso tendenze che poi ritroviamo anche fuori.
La realtà del carcere
L’isolamento, la sanzione disciplinare più dura che un detenuto possa ricevere, racconta molto del nostro modo di intendere la giustizia e la sicurezza. Lungi dall’essere uno strumento eccezionale, viene applicato con frequenza, al punto che parlare di “spazi di isolamento” significa parlare di luoghi diffusi, moltiplicati, che rispondono a logiche non sempre trasparenti.
Il paradosso è che lo Stato italiano, attraverso l’articolo 27 della Costituzione, dichiara che la pena deve tendere alla rieducazione. Eppure, le pratiche reali ci parlano di un’altra logica: la chiusura, la segregazione, la neutralizzazione di chi non riesce ad adattarsi. Dentro questa contraddizione si gioca la credibilità di un sistema penale che sembra sempre più distante dall’obiettivo di reinserire le persone nella società.
La sanzione disciplinare più dura: l’isolamento
L’isolamento disciplinare è previsto dall’articolo 39 dell’Ordinamento penitenziario: consiste nell’esclusione dalle attività in comune per un massimo di quindici giorni. Una misura che, almeno sulla carta, dovrebbe essere usata con parsimonia, ma che nei fatti rappresenta una delle risposte più automatiche ai conflitti interni. Nel 2023, secondo i dati raccolti dal Garante nazionale, 491 persone risultavano in isolamento nei 200 reparti dedicati sparsi nelle carceri italiane. Nel primo trimestre del 2024 i provvedimenti disciplinari di isolamento sono stati 559, in crescita rispetto all’anno precedente.
Numeri che potrebbero sembrare limitati, ma che diventano allarmanti se letti alla luce di alcune realtà locali. Alla Casa circondariale di Perugia, ad esempio, sono stati applicati in media 117 provvedimenti di isolamento per 100 detenuti. Un dato che fotografa la sproporzione nell’uso di questa sanzione. La logica del “contenimento” prevale su quella educativa, e il carcere diventa così un luogo che punisce ulteriormente chi è già stato punito dalla sentenza.
Chi paga davvero il prezzo dell’isolamento
Se si guarda a chi finisce più spesso in isolamento, emergono dinamiche precise. Gli stranieri rappresentano la categoria più colpita: nelle carceri in cui costituiscono oltre il 50% della popolazione, la media dei provvedimenti disciplinari di isolamento è più alta (13,9 ogni 100 detenuti) rispetto agli istituti con prevalenza italiana. Una sproporzione che solleva interrogativi sul carattere discriminatorio di questa misura.
Altra categoria particolarmente colpita è quella delle persone con disagio psichico. In più istituti italiani, osservatori indipendenti hanno trovato detenuti con gravi diagnosi psichiatriche rinchiusi in celle di isolamento, spesso senza materasso o suppellettili. Condizioni che, oltre a violare il diritto alla salute, aggravano i disturbi e trasformano la cella in un luogo di abbandono.
Nel 2023, su 70 suicidi avvenuti in carcere, almeno 11 si sono consumati in una cella di isolamento. È la prova più drammatica di quanto questa misura, anziché mantenere l’ordine, generi disperazione e violenza.
Numeri e ferite: suicidi, autolesionismo e proteste
I dati parlano chiaro: la sofferenza in carcere è strutturale e l’isolamento ne rappresenta una delle manifestazioni più evidenti. Secondo l’Osservatorio di Antigone, nel 2022 la media degli atti di autolesionismo era di 18 ogni 100 detenuti, con picchi impressionanti a Firenze Sollicciano (75 su 100). Nel primo trimestre del 2024 i casi di autolesionismo sono ulteriormente aumentati, passando da 3.087 a 3.184 rispetto allo stesso periodo del 2023. Numeri che raccontano un disagio profondo, collettivo, che non può essere ridotto a episodi isolati.
A questa sofferenza si aggiunge la conflittualità crescente. Le aggressioni al personale penitenziario sono aumentate del 30% in un anno, e le proteste collettive dentro le carceri si moltiplicano: battiture, rifiuto del vitto, scioperi della fame. A volte con esiti tragici, come nel carcere di Augusta, dove nel 2023 due detenuti sono morti dopo uno sciopero della fame durato rispettivamente 40 e 60 giorni. Il ricorso all’isolamento, lungi dal placare le tensioni, sembra quindi alimentarle, innescando un circolo vizioso che produce nuove fratture.
Punire o rieducare? Una scelta politica
Di fronte a questo quadro, la domanda non è più soltanto tecnica, ma politica: vogliamo un carcere che punisca o un carcere che rieduchi? La scelta non è neutra. Ogni provvedimento di isolamento racconta una visione della società: quella che preferisce rimuovere i problemi piuttosto che affrontarli. È più facile rinchiudere in una cella chi fatica ad adattarsi, piuttosto che investire in programmi di sostegno psicologico, istruzione o lavoro. Ma il prezzo di questa scorciatoia lo paghiamo tutti, perché un carcere che genera rancore e disperazione restituisce cittadini più fragili e arrabbiati.
Non mancano alternative: linee guida internazionali propongono misure come la mediazione dei conflitti, i piani individualizzati e la formazione del personale. Ma perché queste strade diventino realtà serve una volontà politica chiara.
Continuare a credere che “buttare la chiave” sia la soluzione, come certa retorica mediatica suggerisce, significa condannare il carcere a essere il luogo dei dimenticati. Invece, la Costituzione ci ricorda che la pena deve avere un fine diverso: offrire la possibilità di cambiare, non di sprofondare ancora di più.
20250330