Il legame tra Stati Uniti e Israele affonda le proprie radici nel periodo post‑bellico, quando gli Stati Uniti divennero il primo Paese a riconoscere Israele nel maggio 1948, pochi minuti dopo la sua nascita. Durante la Guerra Fredda, Israele fu percepito da Washington come un baluardo chiave per contenere l’espansione sovietica in Medio Oriente, ricevendo così sostegno politico e militare crescente. Le affinità culturali, religiose e le sinergie politiche interne – in particolare l’influenza delle lobby pro‑israeliane e delle comunità ebraiche – hanno rafforzato questo legame, conferendogli una solidità bipartisan che perdura da decenni.
Cooperazione economico-militare strutturata
Nel 1981, l’amministrazione Reagan formalizzò la collaborazione strategica con Israele tramite il National Security Decision Directive 111 (NSDD‑111) e un memorandum di intesa siglato da Weinberger e Sharon, volto a coordinare esercitazioni congiunte e supporto logistico militare in chiave anti‑sovietica. Questi strumenti hanno istituzionalizzato la cooperazione politico‑militare, dando origine a forum bilaterali come il Joint Political Military Group, attivo sin dal 1983. Dal punto di vista strategico, questa alleanza ha trasformato Israele in un vero e proprio “ponte militare” per gli interessi americani in Medio Oriente.
In territorio israeliano sono situati depositi di armi e munizioni pre‑posizionate, utilizzabili in caso di conflitto regionale; le forze armate israeliane e quelle statunitensi conducono periodiche esercitazioni congiunte, mentre il porto di Haifa ospita regolarmente unità della Sesta Flotta americana.
Dal 2009, gli Stati Uniti forniscono a Israele circa 3,4 miliardi di dollari annui specificatamente per la difesa missilistica, incluse risorse per il sistema Iron Dome. Nel periodo compreso tra il 2011 e il 2021, il contributo statunitense è stato pari a 1,6 miliardi di dollari per sviluppo, produzione e mantenimento dell’Iron Dome, a cui si sono aggiunti 1 miliardo stanziato dal Congresso nel 2022.
Il sistema di difesa israeliano
Nel marzo 2014 Stati Uniti e Israele firmarono un accordo che autorizzava la co‑produzione di componenti del sistema Iron Dome sul suolo americano. La joint venture Raytheon‑Rafael (R2S) e la produzione dei missili Tamir – conosciuti negli USA come SkyHunter – sono oggi operativi negli stabilimenti di Tucson, confermando una stretta integrazione industriale.
Il sistema di difesa missilistica israeliano è strutturato in più livelli complementari: Iron Dome per minacce a corto raggio, David’s Sling per medio raggio, Arrow‑2/3 per l’intercettazione ad alta quota. Vi è stretta cooperazione tra il Missile Defense Agency statunitense e l’IMDO israeliano; di questa fanno parte anche trasferimenti tecnologici, laboratori congiunti e scambi di expertise sui sensori e sistemi di intercettazione.
Oltre all’uso operativo in Israele, gli apparati del “missile-shield” – batterie Iron Dome e scorte – fungono da piattaforma logistica e deterrente strategico utile all’intero scacchiere mediorientale. Il porto di Haifa e basi militari israeliane sono integrate nelle strategie statunitensi per garantire rapid deployment e supporto operativo.
Ruolo regionale di Israele e dinamiche della partnership con gli Stati Uniti
Pur mantenendo una piena autonomia decisionale sul piano politico e operativo, Israele agisce all’interno di uno spazio strategico fortemente condizionato dal sostegno economico, militare e diplomatico garantito dagli Stati Uniti. Numerosi analisti e studiosi della geopolitica, tra cui Omer Bartov e Ta‑Nehisi Coates, hanno descritto questa relazione come una moderna forma di “colonialità funzionale” o di “proiezione per procura”, in cui Israele — lungi dall’essere uno Stato puramente autonomo — sfrutta l’ombrello strategico offerto da Washington per consolidare la propria posizione di potenza regionale.
Secondo questa lettura, le politiche di insediamento nei territori occupati, l’espansione delle colonie e la gestione del conflitto con la popolazione palestinese sono rese possibili — se non incentivate — dal continuo flusso di sostegno finanziario e tecnologico statunitense. È grazie a questa asimmetria di potere, alimentata da Washington, che Israele riesce a mantenere uno stato di “eccezione permanente” rispetto al diritto internazionale, eludendo sistematicamente le risoluzioni ONU più critiche.
Altri studiosi, come Rashid Khalidi e Stephen Walt, parlano di Israele come di una “portaerei terrestre” degli Stati Uniti nel Medio Oriente, ovvero una piattaforma stabile di proiezione militare e diplomatica che consente a Washington di mantenere un’influenza costante sulla regione, senza il bisogno di un massiccio impiego diretto di truppe.
Se da un lato Israele rivendica con forza la propria sovranità e indipendenza, dall’altro è evidente come le sue scelte militari, soprattutto nei momenti di maggiore crisi — come i conflitti a Gaza o l’attuale escalation con l’Iran — si inscrivano in una cornice strategica fortemente dipendente dall’avallo statunitense. In tale prospettiva, la distinzione tra “alleato” e “proxy” sfuma: Israele rimane formalmente un partner autonomo, ma la sua capacità di agire e di espandere la propria influenza regionale è inestricabilmente legata al sostegno americano.
L’autonomia israeliana
Non mancano tuttavia letture opposte. Studiosi come Michael Oren, ex ambasciatore israeliano a Washington, e Walter Russell Mead, sottolineano come Israele sia in grado di perseguire una propria politica estera indipendente, talvolta divergente dagli interessi statunitensi. Oren evidenzia che Israele, pur beneficiando del sostegno di Washington, ha più volte preso decisioni autonome — ad esempio negli attacchi preventivi in Siria o nelle operazioni cibernetiche contro l’Iran — anche in assenza di un consenso pieno da parte della Casa Bianca. Mead sostiene, invece, che la partnership USA-Israele è più simile a una “coalizione strategica di interessi convergenti” che non a una dinamica di dominio o subordinazione.
Questa divergenza interpretativa segnala come la natura della relazione — se alleanza equilibrata o rapporto di influenza asimmetrica — sia ancora oggetto di dibattito nel campo delle relazioni internazionali.
Momenti di tensione e divergenze strategiche
La relazione tra Stati Uniti e Israele, per quanto solida e fondata su interessi strategici condivisi, ha attraversato nel tempo significativi momenti di tensione. Uno dei primi episodi risale al 1956, in occasione della crisi di Suez: all’epoca, il presidente Dwight D. Eisenhower impose forti pressioni diplomatiche su Israele — così come su Regno Unito e Francia — per ottenere il ritiro dal Sinai, scongiurando un’escalation internazionale e riaffermando il principio della sovranità egiziana sul canale.
Più recentemente, l’amministrazione Obama ha espresso critiche nei confronti dell’espansione degli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Nel 2016, gli Stati Uniti, rompendo una prassi consolidata, non hanno posto il veto alla Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che condannava le colonie israeliane come violazione del diritto internazionale.
Anche sotto l’amministrazione Biden, sebbene la cooperazione militare rimanga molto forte, non sono mancate divergenze su questioni cruciali: in particolare, la Casa Bianca ha pubblicamente criticato l’accelerazione degli insediamenti in Cisgiordania e ha temporaneamente congelato alcune forniture militari offensive per influenzare le scelte del governo israeliano.
Questi episodi testimoniano che, nonostante l’alleanza strutturale e l’ampio sostegno americano, esistono spazi di divergenza e negoziazione su questioni fondamentali, soprattutto quando l’azione israeliana rischia di compromettere la stabilità regionale o di contraddire gli orientamenti ufficiali della politica estera statunitense. Tali dinamiche confermano che il rapporto, lungi dall’essere meramente subalterno o privo di dialettica, è soggetto a continue ridefinizioni, in base al contesto geopolitico e alle priorità delle rispettive leadership.
L’attualità del conflitto e l’assetto della partnership
Nel contesto contemporaneo, segnato da un’acuta instabilità regionale, Israele ha spesso scelto di agire unilateralmente nei principali teatri di crisi, sia sul fronte del conflitto israelo‑palestinese, sia rispetto alla crescente tensione con l’Iran. L’attacco israeliano contro obiettivi iraniani in Siria, così come le recenti operazioni cibernetiche e il sostegno indiretto ai gruppi di opposizione anti‑iraniani, sono stati condotti da Tel Aviv senza un pieno coinvolgimento operativo americano, ma contando su una copertura diplomatica e militare, implicita o esplicita, da parte di Washington.
La Casa Bianca, soprattutto sotto l’amministrazione Biden, ha mostrato una crescente prudenza nel voler evitare un coinvolgimento diretto che possa trascinare gli Stati Uniti in un conflitto potenzialmente senza fine. Questa postura di equilibrio si è manifestata nel recente caso delle tensioni con Teheran, dove, nonostante le pressioni dei settori più interventisti del Congresso e della comunità israeliana negli Stati Uniti, l’amministrazione ha limitato il proprio ruolo a un supporto logistico e informativo, escludendo l’invio diretto di forze armate.
Secondo alcuni analisti — tra cui Nesrine Malik e Daniel Byman — questa dinamica rappresenta un tentativo di Israele di mantenere un’immagine di autodifesa autonoma, sfruttando al contempo il vantaggio strategico e le risorse offerte dalla partnership con gli Stati Uniti. La capacità di Tel Aviv di operare come attore regionale forte, pur beneficiando di un quadro di sostegno americano, consente al governo israeliano di perseguire una politica estera assertiva senza assumersi interamente il rischio politico e militare di un impegno diretto e prolungato.
Prospettive future e riflessioni strategiche
Il rapporto tra Stati Uniti e Israele rimane, a oggi, uno degli assi portanti della politica americana in Medio Oriente. Esso si basa su una combinazione di fattori: interessi strategici convergenti, profonde connessioni culturali e religiose, pressioni di influenti gruppi interni al sistema politico statunitense e una comune visione del ruolo che entrambi i Paesi devono giocare nello scacchiere regionale.
Tuttavia, l’evoluzione del quadro geopolitico e il mutamento degli equilibri politici interni agli Stati Uniti stanno ponendo nuove sfide alla relazione bilaterale. All’interno del Congresso e della società americana emergono posizioni più critiche, che mettono in discussione il tradizionale sostegno “incondizionato” a Israele, specialmente quando le politiche israeliane — in particolare nei confronti dei palestinesi — si scontrano con i principi del diritto internazionale e con gli obiettivi di stabilità regionale dichiarati da Washington.
Il futuro dell’alleanza USA-Israele dipenderà dunque dalla capacità di entrambi i partner di ricalibrare i rispettivi ruoli: per Israele, mantenendo un equilibrio tra autonomia e cooperazione, senza dare l’impressione di strumentalizzare il supporto statunitense; per Washington, sviluppando una politica estera coerente, che sappia conciliare la difesa degli interessi nazionali con l’esigenza di preservare la propria credibilità globale.
In questo quadro, il dibattito interno negli Stati Uniti e le future scelte delle leadership di entrambi i Paesi giocheranno un ruolo decisivo nel plasmare la natura della partnership nei prossimi anni.
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