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    Quale futuro per Taranto dopo le dimissioni del Sindaco Bitetti?

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    A meno di due mesi dalla sua elezione, il sindaco di Taranto Piero Bitetti ha presentato le proprie dimissioni. La decisione è maturata al culmine di una protesta accesa sulla questione riguardante l’ex Ilva, lo stabilimento siderurgico da anni al centro di una contesa politica per ragioni di interesse ambientale e occupazionale. Bitetti ha motivato il gesto con la “inagibilità politica” determinatasi in città dopo che un gruppo di cittadini e attivisti ambientalisti lo aveva contestato duramente in un incontro pubblico, arrivando di fatto ad occupare il palazzo di Città e a bloccarne l’uscita. 

    Le proteste

    All’esterno del municipio, altri manifestanti hanno scandito slogan contro il nuovo accordo sul futuro dell’ex Ilva; nel mirino anche il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano. “Sindaco, difenda la vita” hanno intimato i comitati al primo cittadino, accusato di non tutelare abbastanza la salute dei tarantini. Bitetti aveva convocato le forze politiche e sociali proprio per ascoltare le istanze di associazioni e movimenti in vista di una delicata riunione istituzionale sul futuro dello stabilimento. Tuttavia, di fronte all’escalation della protesta, ha ritenuto impossibile proseguire il proprio mandato in un clima così conflittuale.

    Tra diritto alla salute e al lavoro

    Le dimissioni di Bitetti sono l’ultimo segnale di quanto Taranto sia spaccata sul destino dell’ex Ilva. Decenni di emissioni inquinanti dell’acciaieria più grande d’Italia che hanno lasciato un conto salato in termini di inquinamento ambientale e di rischi per la salute della popolazione contrapposti al peso dei posti di lavoro e dell’indotto industriale legato allo stabilimento. 

    Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel decennio precedente al 2010 le emissioni dell’impianto hanno causato almeno 270 morti premature nell’area di Taranto. Nel quartiere Tamburi, il più vicino agli altoforni, si registrano tassi eccessivi di patologie come tumori polmonari, mesoteliomi e disturbi neurologici nei bambini correlati agli inquinanti industriali. Comitati civici, famiglie e associazioni mediche locali da anni denunciano questa situazione, invocando il “principio di precauzione” e misure drastiche per fermare l’esposizione della popolazione agli agenti nocivi.

    Tuttavia, l’ex Ilva, oggi gestita dalla società pubblica-privata Acciaierie d’Italia, impiega ancora circa 8.000 lavoratori diretti a Taranto, in una provincia storicamente afflitta da alti tassi di disoccupazione. La prospettiva di una chiusura, senza alternative produttive significative, impatterebbe gravemente sul tessuto socioeconomico locale per un comparto produttivo che, oltre a garantire migliaia di posti di lavoro, viene considerato estremamente strategico a livello nazionale. In una fase delicata come quella in corso, proprio per il peso specifico che lo stabilimento ha sull’economia del Paese, sindacati come la UIL e rappresentanti degli industriali hanno lanciato un appello affinché Bitetti ritiri le dimissioni e prosegua il confronto

    Lo stabilimento in crisi e il piano di rilancio

    Nell’ultimo periodo, lo stabilimento di Taranto ha operato a ranghi ridotti: su cinque altoforni, oggi soltanto uno è in funzione, mentre gli altri sono fermi per manutenzione o vicende giudiziarie. La produzione di acciaio è crollata considerato che nel 2024 dallo stabilimento sono uscite appena circa 2 milioni di tonnellate, a fronte di almeno 6 milioni annue ritenute necessarie per la sostenibilità economica dell’impianto. Metà della forza lavoro è in esubero temporaneo, con 3.500 operai che sono attualmente in cassa integrazione. La società, stando alle recenti stime, accumula perdite ingenti di oltre 40 milioni di euro al mese, dipendendo ormai dal sostegno pubblico per sopravvivere.

    Per risollevare la situazione, il Ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso, ha delineato un piano di rilancio in due fasi. La prima fase, a breve termine, prevede interventi straordinari di manutenzione e ammodernamento sugli altiforni esistenti, per riattivarne almeno due e riportare la capacità produttiva verso la soglia minima di equilibrio. La seconda fase è definita come una vera rivoluzione industriale per Taranto, in cui ci dovrebbe essere un passaggio dalla produzione tradizionale con altoforni a carbone a nuovi forni elettrici alimentati a gas naturale, nell’ambito di un progetto di completa decarbonizzazione dello stabilimento. 

    Questo cambio di tecnologia richiede però tempi molto lunghi – circa 12 anni – e investimenti ingenti. Il piano governativo prevederebbe infatti l’installazione di una nave rigassificatrice nel porto di Taranto per garantire l’approvvigionamento di gas ai nuovi forni e tutta una serie di opere correlate. Una volta realizzato, il nuovo ciclo produttivo ridurrebbe drasticamente le emissioni inquinanti, ma comporterebbe anche un minore fabbisogno di manodopera rispetto all’impianto tradizionale, circostanza che alimenta ulteriori timori occupazionali.

    Sviluppi istituzionali e tensioni politiche

    Sul piano istituzionale, la vicenda ex Ilva è arrivata in una fase cruciale proprio nei giorni in cui Taranto è scossa dal caos politico. Il Governo nazionale, la Regione Puglia e il Comune stavano per siglare un Accordo di Programma interistituzionale sul futuro dello stabilimento, focalizzato sulla piena decarbonizzazione e il rilancio produttivo in chiave sostenibile.

    Era stato fissato per domani, giovedì 31 luglio, un vertice a Roma presso il ministero, con la partecipazione del Ministro Urso, del Governatore Emiliano e del sindaco Bitetti, per formalizzare l’intesa. Alla vigilia, il Consiglio comunale di Taranto doveva esprimersi sulla bozza di accordo. Proprio in preparazione di ciò, Bitetti aveva organizzato il confronto pubblico con cittadini e associazioni, auspicando di condividere le decisioni con la comunità locale. 

    L’Ilva sul piano giudiziario

    A livello nazionale, il caso Ilva è da tempo sotto i riflettori anche sul piano giudiziario e normativo. Sin dal 2012, dopo le prime inchieste che accertarono il disastro ambientale causato dallo stabilimento, il Parlamento è intervenuto con una serie di provvedimenti per consentire la continuità produttiva imponendo al contempo piani di risanamento. Questa strategia dell’equilibrio tramite cui si è provato a tenere aperta la fabbrica mentre si promettevano miglioramenti ambientali, è stata però oggetto di dure critiche. 

    Nel 2019, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato lo Stato nella sentenza Cordella vs. Italia per non aver protetto adeguatamente la popolazione di Taranto. I giudici di Strasburgo hanno rilevato la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare considerando che, con normative ad hoc, era stata consentita la prosecuzione delle attività pur in presenza di gravi evidenze di pericolosità per la salute pubblica. Successive sentenze europee hanno ribadito le responsabilità italiane nel non aver attuato misure efficaci a tutela dei cittadini esposti all’inquinamento dell’Ilva. 

    Oltre le dimissioni: il futuro per Taranto

    L’Accordo di Programma su cui Governo, Regione e Comune stavano lavorando è visto come un’occasione storica per definire finalmente un percorso condiviso con l’obiettivo dichiarato di azzerare le emissioni nocive attraverso la riconversione tecnologica, proteggendo al contempo i livelli occupazionali con investimenti e ammortizzatori sociali. Eppure, la fiducia della cittadinanza è ai minimi storici a causa di anni di rinvii, battaglie legali e crisi aziendali. 

    Molti tarantini inoltre temono che i 13 anni previsti per completare la transizione verde siano troppi: a pensarlo è anche lo stesso Bitetti, che ha chiesto tempi più rapidi e garanzie più solide per il territorio. È una corsa contro il tempo considerando che ogni mese di stallo avvicina lo spettro del collasso finanziario per l’impresa siderurgica, rendendo più incerto l’impegno di eventuali nuovi partner.

    Nelle prossime settimane, Bitetti dovrà decidere se ritirare le dimissioni e riprendere la guida del Comune. In tal caso, il sindaco lo farà con un mandato politicamente rafforzato, soprattutto grazie al sostegno dei partiti di maggioranza, che hanno espresso solidarietà e condannato le aggressioni subite. Tuttavia, se l’addio dovesse essere confermato, Taranto rischierebbe un periodo di commissariamento amministrativo proprio mentre si decidono le sorti dello stabilimento. 

    Conclusioni

    In ogni scenario, appare indispensabile che tutti gli attori lavorino in un clima di rispetto reciproco, senza forzature istituzionali né imposizioni unilaterali. Taranto attende da decenni una soluzione che garantisca finalmente un equilibrio tra tutela dell’ambiente e diritto al lavoro, ponendo fine a una vicenda tormentata che ha segnato la città sia sotto il profilo economico che sotto quello umano. 

    Le dimissioni del sindaco Bitetti sono il sintomo di una ferita aperta, la stessa che invita la politica a scelte coraggiose per il futuro della città e dell’intero Paese.

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