Le ferrovie hanno rappresentato, in una precedente epoca storica, un volano di crescita, investimenti, sviluppo e ingresso nell’era industriale per molti paesi. Lì dove si producono merci, corrono veloci i commerci e le persone. Anche l’Italia, nel XIX secolo, ebbe la sua rivoluzione sui binari come molti Stati europei, ma con le solite difficoltà e ritardi, in quanto nazione ancora divisa fino al 1861 e a vocazione agricola, anche nella prima parte del ‘900, dunque con poche fabbriche moderne.
Le ferrovie: simbolo di crescita e coesione del Paese
Le ferrovie favorirono l’unificazione dell’Italia dopo Cavour e Garibaldi, e forse lo fecero anche meglio. Fatta l’Italia, ora facciamo i binari. Prima della costruzione della rete ferroviaria, lo stivale era diviso e recalcitrante. L’introduzione delle ferrovie facilitò i trasporti tra il nord e il sud del paese, permettendo una maggiore mobilità di persone, merci e idee, e contribuendo così a ridurre le disparità tra le diverse aree. Ma la grande proletaria si era messa in marcia e, successivamente, il fascismo diede impulso ad ulteriori investimenti e ad una riorganizzazione più efficiente del settore, tanto che si diffuse il mito che, da quando c’era Mussolini, i treni arrivavano finalmente in orario, a dir la verità anche per il pugno duro contro gli scioperi.
Dal mito dell’efficienza alla realtà dei ritardi
Oggi, le cose sembrano fare addirittura macchina indietro, segnale di una decadenza nazionale che non pare arrestabile. Il bel Paese ha ancora bisogno di infrastrutture innovative e all’avanguardia per rimanere al passo con gli altri membri UE, ma è altrettanto vero che, nella scelta delle possibilità, occorrerebbe bilanciare priorità concrete dei pendolari e delle imprese con i capricci puerili di una politica accecata da interessi e logiche elettoralistiche, poco interessate al benessere collettivo.
Le priorità sbagliate: l’illusione di un grande progetto vs le necessità reali
Mettendo da parte l’opinione che ciascuno ha sul Ponte sullo Stretto (non siamo contrari ai grandissimi investimenti pubblici che hanno funzione anticiclica da quando Keynes spiegò l’utilità di scavare buche e ricoprirle), infrastruttura macroscopica che collegherebbe la Calabria alla Sicilia, la prima domanda che il titolare del Dicastero ai trasporti dovrebbe porsi è: ma in Calabria come ci si arriva? Ha fatto quasi 30, non si dimentichi di fare 31.
Soprattutto augurandosi che sui convogli non ci salga più il ministro Lollobrigida, che si è reso protagonista di un episodio poco edificante, qualche mese fa, imponendo uno stop al Frecciarossa Torino-Salerno, ovviamente in ritardo, per scendere prima e arrivare in orario ad un suo appuntamento, ma proseguendo in macchina. Sembra una barzelletta e, in fondo, lo è, come tutto in questa Italia ridotta a macchietta da politici che un tempo al massimo avrebbero svolto il lavoro di bigliettai alla stazione.
Tra gaffes ed inefficienza: una classe dirigente su un binario morto
Tralasciando anche la storica romanzata del “Cristo si è fermato ad Eboli”, affermazione non falsa considerando la difficoltosa situazione delle infrastrutture ferroviarie (ma anche di altra tipologia) insistente nella gran parte del cuore meridionale, come si fa ad avanzare pretese con i treni che “puntualmente” partono con una media di 45 minuti di ritardo e che “puntualmente” trovano intoppi nella linea di percorrenza?
Il bel Paese è e rimarrà così per molto tempo: mai in orario o sempre in ritardo. Allora una classe dirigente più che attardata si rende persino ridicola, giocando sull’anticipo, facendo ancora più danni. Ci sono frangenti nella storia, come scriveva Lenin, in cui non si deve arrivare né un minuto prima né un minuto dopo. Da ex comunista padano, Salvini dovrebbe ripassarlo. Tutti su in carrozza, o quasi, senza nemmeno avvertire i viaggiatori dei cambiamenti di orario.
Gli ultimi tre anni, nonostante una serie di interventi in tutta la penisola per miliardi di euro, per ammodernare e ripristinare le linee, sono stati anni orribili per le ferrovie nazionali. Con ministri protagonisti di gaffes ed errori, oltre a qualche incidente di troppo sui binari, che hanno evidenziato dei nervi scoperti. L’Italia deraglia e i politici ragliano perché non hanno alcuna visione del futuro.
Conclusioni
Quello del treno che parte prima per non arrivare dopo è solo l’ennesimo sintomo dello scartamento ridotto su cui si muovono i cervelli di questa élite dirigenziale, finita da tempo su un binario morto. Dubitiamo, dunque, che sarà Salvini, nonostante il cognome, a salvare il sud da un atavico gap infrastrutturale che richiederebbe un impegno dello Stato ben più alto nelle cifre e nei progetti sventolati da Ministero e RFI in quest’ultima fase.
Anzi, con la crisi che sta travolgendo gli apparati industriali in tutta Italia e soprattutto nel meridione, anche con i treni in orario, sarà ormai troppo tardi per la Storia. In un’altra prospettiva, le infrastrutture possono sicuramente diventare la rampa di lancio per una rinascita economica, ma bisogna avere una visione che, in questo momento, sembra della stessa consistenza del fumo che saliva dai vecchi locomotori.