Quella di Rahel Saya non è una storia come le altre. Giornalista afghana e attivista per i diritti umani, all’alba del 25 agosto 2021, mentre i talebani completavano la presa al potere in Afghanistan, è riuscita a lasciare Kabul, la sua terra. Attraverso vari reportage, il suo vissuto e la sua straordinaria resilienza, Rahel racconta le vicende di migliaia di donne e bambine vittime delle violenze e delle persecuzioni del regime.
Il suo impegno umanitario, che si manifesta anche nelle istituzioni europee – incluso il nostro Paese, dove ora risiede – dà voce e restituisce dignità a quelle donne ridotte al silenzio. La duplice esperienza di Rahel, come donna afghana e come donna emancipata nell’Occidente libero, è una preziosa testimonianza di coraggio e perseveranza. Una fortuna nella sfortuna che, tuttavia, tante altre donne del suo Paese non possono raccontare.
Cosa è successo quel 15 agosto a Kabul?
“Quel 15 agosto a Kabul è stato un giorno che ha segnato non solo la caduta di una città, ma anche la frattura di milioni di vite e di cuori. Kabul, con il suo respiro intriso di storia, si è trovata improvvisamente schiacciata dal peso del silenzio e del caos. Era come se il tempo si fosse fermato, lasciando spazio a un vuoto opprimente, un grido soffocato che rimbombava nelle strade deserte. Io lo ricordo come se fosse ieri. Il cielo sembrava cadere, e l’aria era pesante di paura, speranza infranta e urla soffocate. Era un mattino come tanti, ma poi tutto è cambiato. Quella notte, non ho dormito. Ero incollata al mio computer, ai social, ai messaggi che arrivavano da amici e colleghi. Le storie erano strazianti: famiglie divise, persone nascoste nei bagni, negli scantinati, nei giardini, terrorizzate. E io mi sentivo impotente. Come si combatte un nemico che ti ruba non solo il presente, ma anche l’idea stessa di futuro? Per me, quel giorno ha cambiato tutto. Non sono solo una giornalista o un’attivista. Sono una ragazza che ha visto il suo paese cadere a pezzi. Ma non smetterò mai di lottare. Perché anche quando sembra che tutto sia perduto, so che la mia voce può ancora fare la differenza. E se non io, allora chi? Il 15 agosto a Kabul, quindi, non è solo una data da ricordare, ma una ferita aperta che ci chiama a riflettere sul valore della libertà, sulla fragilità della pace, e sull’imperativo di non voltare mai le spalle a chi grida aiuto. In quel giorno, Kabul ci ha mostrato il volto più oscuro dell’umanità e, al tempo stesso, il suo struggente bisogno di redenzione”.
Com’era la tua vita a casa?
“La mia vita a casa era un intreccio di contrasti, un miscuglio di calore, tradizione e una costante tensione verso un futuro incerto. Quando penso a casa, penso all’odore del tè che mia madre preparava ogni mattina, al rumore delle risate dei miei fratelli, al fruscio delle tende mosse dal vento. C’era una bellezza semplice nella routine: il cibo condiviso, le storie raccontate intorno al tavolo, il senso di appartenenza che ti avvolgeva come una coperta in una notte fredda. Ma sotto quella superficie di normalità, c’era sempre una consapevolezza silenziosa. Le mura di casa non erano solo un rifugio, erano una barriera contro un mondo esterno pieno di pericoli. Da bambina, ricordo di aver sentito parlare di cose che non capivo del tutto: guerre, conflitti, restrizioni. Ma crescendo, ho iniziato a capire. Ho capito che la mia casa era il mio porto sicuro, ma non era abbastanza per tenermi al riparo da ciò che accadeva fuori”.
Come sei scappata dall’Afghanistan?
“Tutto iniziò con un messaggio. Un giornalista italiano con cui avevo collaborato nel 2019 mi diede una notizia che sembrava un flebile raggio di luce in una notte senza fine. I miei amici italiani, che oggi sono diventati la mia famiglia, unirono le forze per dare inizio a questo viaggio. Dall’Afghanistan all’Uzbekistan su un aereo militare, poi dalla Germania all’Italia. Sono solo nomi di paesi, ma nessuna mappa può tracciare il dolore che si nascondeva dietro ogni confine. Se dicessi che è stato facile, mentirei a me stessa. Ogni passo verso l’aeroporto era un colpo al cuore. La mia casa era a più di due ore di distanza, ma non era la distanza fisica la parte più dura. Il momento più devastante fu quando capii che stavo lasciando il mio mondo per sempre, senza sapere se lo avrei mai rivisto. Dall’Uzbekistan alla Germania, non avevo altro compagno se non le mie lacrime. Ho pianto per la casa che avevo abbandonato, per la terra che era crollata nel mio cuore, per tutto ciò che avevo perso e che mai avrei ritrovato. Non c’era un attimo in cui non mi chiedessi: avrà mai fine questo viaggio? Ci sarà un ritorno? E io, potrò mai ritrovare me stessa lontano da ciò che mi era stato strappato? Ogni controllo di frontiera era una ferita nuova, un promemoria che la mia vita non mi apparteneva più. Il mio destino era nelle mani di sconosciuti. Soldati che fissavano i miei documenti come se potessero decidere con uno sguardo se meritassi un futuro o meno. E io, con il cuore in gola, pregavo che ogni passo in avanti non fosse l’ultimo. Quando raggiunsi l’aeroporto, il caos mi avvolse: bambini che piangevano, madri pallide, volti contratti dalla paura. Eravamo tutti uguali in quel dolore condiviso. Avevamo lasciato non solo un luogo, ma una parte di noi stessi, una parte che forse non avremmo mai ritrovato. In mezzo a quella folla spezzata, compresi che non esistono parole per descrivere la perdita di un’identità. Quando l’aereo decollò, un nodo mi strinse la gola. Guardavo Kabul dalla finestra, le strade, i vicoli, la mia casa, tutto quello che conoscevo. Le lacrime non erano più silenziose. Erano un urlo, un fiume impetuoso che non potevo fermare. Sentivo che una parte di me era morta, una parte che mai sarebbe tornata a vivere. Il viaggio verso l’Italia, tra scali e campi profughi, fu un incubo infinito. Ogni luogo era una cornice vuota, un’eco di ciò che avevo perso. Mi mancava tutto: il sorriso di mia madre, le risate dei miei fratelli, persino l’aria secca e polverosa di Kabul. I ricordi, dicono, sono ciò che ci tiene vivi, ma a volte sono una tortura più acuta di qualsiasi ferita. Quando arrivai in Italia, avrei dovuto essere grata. Ero al sicuro, ero viva. Ma dov’era la gioia? Dove la pace? Il mio cuore era rimasto a Kabul, in una casa che forse nemmeno esiste più. L’Italia era un rifugio, ma come potevo chiamarlo casa quando tutto in me gridava che non appartenevo a quel luogo? Questo è il mio viaggio, un viaggio che non ha fine. Ogni giorno combatto con la realtà che ho di fronte, ma una parte di me è rimasta lì, tra quei muri, su quella terra. Forse un giorno tornerò. Forse no. Ma fino ad allora, vivo sospesa tra ciò che ho perso e i ricordi che mi tengono in vita, e allo stesso tempo, mi uccidono”.
Com’è stato arrivare in Italia?
“Arrivare in Italia è stato un viaggio difficile, un cammino pieno di dolore e incertezze. Essere rifugiato non è mai facile; è una lotta quotidiana per ricostruire la propria vita, per trovare un senso di appartenenza in un mondo che sembra spesso estraneo. Ogni passo che ho fatto in questo nuovo Paese è stato segnato da paure, speranze, e la costante sensazione di non essere mai abbastanza a casa, di essere ancora lontana da tutto ciò che conoscevo. Eppure, nonostante tutte le difficoltà, l’Italia è diventata per me un rifugio. Un Paese che mi ha accolto, che mi ha dato la possibilità di ricominciare, di respirare di nuovo. Qui ho trovato una pace che avevo perso nel mio Paese, una pace che mi è stata rubata. In Afghanistan, il mio cuore era sempre in tumulto, la mia mente sempre colma di paura, di lotte quotidiane per diritti che sembravano essere solo sogni. Ma in Italia, ho sentito per la prima volta quel respiro profondo di sollievo, quella sensazione di poter essere davvero me stessa, senza dovermi nascondere o temere. Non è stato facile, ci sono stati momenti di solitudine, di tristezza per tutto ciò che ho lasciato indietro, per le persone che non ho potuto salvare, per il futuro che sembrava incerto. Ma l’Italia mi ha offerto qualcosa che non pensavo di poter trovare: speranza. Spero di poter un giorno restituire a questa terra almeno un po’ di ciò che mi ha dato, perché qui ho trovato una nuova vita, una vita che, nonostante tutto, ha ancora un futuro”.
Cosa significa vivere in un paese in guerra? Soprattutto in una guerra così lunga.
“Vivere in un paese in guerra significa vivere in un costante stato di allerta, dove ogni giorno potrebbe essere l’ultimo. Significa svegliarsi ogni mattina con il cuore in gola, non sapendo se la giornata sarà normale o se sarà segnata da una esplosione, da un colpo di fucile, da un momento di paura che cambia tutto. La guerra ti entra dentro, ti cambia, ti trasforma. Non solo nel corpo, ma nell’anima. In una guerra che dura così tanto, 20 anni, tutto diventa normale, ma allo stesso tempo niente è mai davvero normale. Cresci con il rumore delle bombe come sottofondo della tua vita. Abiti in un luogo dove le parole “sicurezza” e “futuro” diventano concetti lontani, quasi irraggiungibili. Ogni sogno sembra infrangersi contro la durezza della realtà. Eppure, cerchi di andare avanti, cerchi di vivere, di trovare un senso anche in mezzo alla distruzione. Io mi ricordo di quanto fossero costanti le preoccupazioni. Non solo per la mia vita, ma per quella di chi amavo. Non c’è mai pace nella guerra. La paura non ti lascia mai, nemmeno di notte, quando ti addormenti sentendo il rumore di un elicottero che sorvola o una sirena che ti fa svegliare di soprassalto”.
Che rapporto c’era tra popolazione civile afghana e militari occidentali?
“Dal 2000 al 2021, il rapporto tra noi civili afghani e i militari occidentali è stato come vivere un sogno spezzato, una promessa mai davvero mantenuta. Ricordo i primi anni, quando le loro truppe arrivarono. Ci raccontavano che sarebbero stati loro a liberarci dal terrore dei talebani, a costruire un paese dove finalmente avremmo potuto vivere senza paura, studiare, crescere, amare. Per una ragazza come me, nata e cresciuta in un’epoca in cui il buio sembrava eterno, quelle parole erano come una luce lontana. Una speranza che sembrava reale. All’inizio, molte persone li vedevano come eroi. Camminavano per le nostre strade con uniformi che brillavano sotto il sole, portando con sé promesse di scuole, ospedali, strade nuove. Alcuni di loro sorridevano ai bambini, distribuivano cioccolatini, cercavano di imparare qualche parola nella nostra lingua. Ma con il passare degli anni, quella facciata di speranza ha iniziato a sgretolarsi. Perché la realtà della guerra è sempre più complicata di ciò che raccontano. Ci sono stati momenti in cui ci siamo sentiti protetti, è vero. Sapevamo che la loro presenza teneva i talebani lontani almeno per un po’. Ma la guerra non è mai una cosa pulita, e la presenza di soldati stranieri nel nostro Paese non era sempre un bene. Per ogni promessa di pace, c’era un bombardamento che colpiva il villaggio sbagliato. Per ogni stretta di mano con un civile, c’era un posto di blocco dove qualcuno veniva trattato con sospetto, come un nemico potenziale. E per ogni sorriso, c’era uno sguardo distante, uno scudo invisibile che ci ricordava che, alla fine, loro potevano sempre tornare nelle loro case sicure, mentre noi saremmo rimasti qui, nella polvere e nel sangue. Non li odiavamo tutti, ma spesso ci sentivamo invisibili per loro. Come se fossimo solo una parte del panorama di guerra, un accessorio del conflitto. I nostri morti erano “danni collaterali”, le nostre case distrutte erano “necessarie per la missione”. A volte mi chiedevo se capissero davvero cosa significasse essere noi, vivere in un paese in guerra, vivere con la costante paura che ogni passo falso, ogni sbaglio, potesse costarci tutto. E poi, nel 2021, se ne sono andati. Così, all’improvviso. Ricordo il caos, la confusione, il senso di abbandono. I talebani avanzavano, e noi guardavamo increduli. Come potevano lasciarci così? Dopo vent’anni, dopo tutto quello che avevamo sacrificato, sperato, perso? Sembrava una beffa crudele. Se ne andavano portandosi via tutto quello che ci avevano promesso: la pace, la stabilità, un futuro migliore. E ci lasciavano con un passato che tornava come un’ombra oscura a inghiottire tutto. Il rapporto con loro è stato questo: un misto di gratitudine e rabbia, di speranza e delusione. Per alcuni erano salvatori, per altri occupanti. Ma per me, erano solo un’altra forza che ha attraversato la mia terra, lasciandola più spezzata di prima”.
Oggi, com’è la situazione in Afghanistan?
“Oggi, la situazione in Afghanistan è come una ferita che non smette mai di sanguinare. Anche da lontano, il mio cuore rimane ancorato a quella terra, a quel cielo che ho lasciato ma che non ha mai lasciato me. Ogni giorno, mi sveglio con un peso sul petto, chiedendomi cosa stia succedendo là, cosa stiano vivendo le donne, i bambini, la mia gente. È come vivere con un’eco continuo di dolore, un filo invisibile che mi lega a un passato che sembra non voler mai diventare davvero passato. Per le donne, la situazione è straziante. I loro sogni sono stati strappati via come foglie portate via dal vento. Una volta avevano iniziato a costruire un futuro, a lottare per un posto nel mondo, e ora, molte di loro sono state costrette a rimanere in silenzio, intrappolate nelle loro case, nei loro pensieri, nei loro dolori. Le scuole sono diventate sogni proibiti per tante ragazze. Mi chiedo quante bambine, sedute accanto a una finestra, guardano fuori e si chiedono quando sarà il loro turno di studiare, di vivere, di essere viste. E poi ci sono i bambini. Bambini che avrebbero dovuto giocare, ridere, sognare. Ma cosa significa essere un bambino in un paese dove il suono delle risate è soffocato dal rumore della paura? Dove un’infanzia spensierata è solo un’illusione? Quanti di loro crescono troppo in fretta, con occhi troppo vecchi per la loro età, perché hanno visto cose che nessun bambino dovrebbe mai vedere. Nonostante tutto, non voglio lasciarmi sopraffare dal pessimismo. Devo credere che c’è ancora speranza, perché senza speranza, cos’altro ci rimane? Sogno un Afghanistan dove le donne possano camminare libere, dove i bambini possano correre senza paura, dove la vita sia più forte della guerra e dell’odio. So che non sarà facile, so che ci vorrà tempo, forse più di quanto possiamo immaginare. Ma voglio credere che le ombre non possano durare per sempre. Voglio credere che il nostro popolo troverà la forza di rialzarsi, come ha sempre fatto”.
Cosa significa essere una donna afghana?
“Essere una donna afghana significa vivere con un cuore che conosce il peso del silenzio e la forza della resistenza. Significa portare sulle spalle il fardello di generazioni di lotte, di sogni spezzati, di libertà negate. È guardare il mondo attraverso gli occhi di chi sa che ogni passo, ogni parola, ogni respiro può essere contestato, può essere troppo, può essere punito. Significa nascere in un luogo dove il tuo valore viene deciso da altri, dove la tua voce è spesso considerata un’eco inutile in un mondo dominato dal rumore delle decisioni degli uomini. Ma essere una donna afghana è anche portare dentro un fuoco, una forza silenziosa che nemmeno le più brutali oppressioni possono spegnere. È sapere che, anche quando tutto ti viene tolto, hai ancora qualcosa che non possono rubarti: la tua dignità, il tuo coraggio, la tua speranza”.
L’Occidente è adeguatamente informato su quanto accade in Afghanistan?
“No, l’Occidente non è adeguatamente informato su quanto accade in Afghanistan. Se lo fosse, non ci sarebbero parole per giustificare la sofferenza che stiamo vivendo, non ci sarebbe spazio per l’indifferenza. Se davvero sapessero cosa significa vivere ogni giorno con il cuore in gola, con la paura che si insinua in ogni respiro, forse, solo forse, qualcosa cambierebbe. Ma non è così. Perché se sapessero davvero, non ci guarderebbero da lontano come una storia lontana, come una tragedia che non li riguarda. Invece, siamo invisibili per loro, relegati a un angolo dimenticato del mondo, dove il nostro dolore non è abbastanza grande da scuotere le coscienze, non è abbastanza urgente da meritare una risposta. Ogni giorno qui è una lotta per sopravvivere. Ogni notte è seguita dalla speranza fragile che il domani porti con sé un po’ di luce, ma la luce sembra sempre più distante. Le donne e i bambini, che sono la nostra forza, sono i primi a pagare il prezzo più alto. La nostra dignità viene calpestata e la nostra libertà, quella che ci è stata promessa, è ormai un sogno lontano. La guerra che ci hanno lasciato dietro non è finita, è solo cambiata. Le cicatrici che portiamo dentro di noi sono più profonde di qualsiasi ferita fisica, eppure nessuno sembra vederle, nessuno sembra sentirle. Se l’Occidente fosse davvero informato, capirebbe che le nostre lacrime non sono solo lacrime di dolore, ma di disperazione per un futuro che sembra non arrivare mai. Se sapessero davvero, non ci lascerebbero a vivere in questo limbo, dove il passato ci perseguita e il futuro è incerto. Ma loro non lo sanno. O se lo sanno, hanno deciso che non è abbastanza importante da agire, che non è abbastanza urgente da fermare il mondo e chiedersi perché noi, che siamo esseri umani come loro, dobbiamo subire tutto questo”.
Cosa ti aspetti per il futuro del tuo Paese? Cosa ti senti di fare per l’Afghanistan?
“Per il futuro del mio Paese, non so cosa sperare più. Quando guardo avanti, vedo solo un vuoto, una terra spezzata da guerre e tradimenti, un futuro che sembra essere stato rubato prima ancora che avesse una possibilità di esistere. Ogni giorno mi chiedo se ci sarà mai un giorno in cui potremo vivere senza paura, senza piangere per i sogni che non sono mai stati realizzati, senza sentire il peso di un passato che non smette mai di perseguitarci. L’Afghanistan è la mia casa, il mio cuore, ma ogni angolo di questa terra è stato macchiato dal dolore. E mentre il mondo guarda lontano, noi rimaniamo qui, in silenzio, con la speranza che qualcosa cambi, ma con la consapevolezza che forse, solo forse, non cambierà mai. Cosa posso fare per l’Afghanistan? Mi chiedo se le parole bastano, se le parole possono davvero fare la differenza. Sono solo una voce tra milioni, una voce che grida nel vuoto, una voce che, a volte, si perde nell’eco della solitudine. Mi sento impotente. Ogni volta che penso a casa, a ciò che era e a ciò che è diventata, il mio cuore si spezza. Non voglio arrendermi, non voglio credere che sia troppo tardi, ma in ogni angolo della mia anima, sento che il tempo ci è stato rubato. Voglio fare qualcosa, fare di più, ma cosa posso fare quando tutto ciò che conosco è il dolore? Quando la mia terra è diventata un campo di battaglia, e i miei sogni sono sepolti sotto le rovine di un paese distrutto? A volte, mi chiedo se l’unica cosa che posso fare è non dimenticare, non lasciare che il mondo dimentichi. Forse è questo ciò che posso fare per l’Afghanistan: raccontare la sua storia, raccontare la sofferenza di un popolo che ha perso tanto e che continua a lottare, anche quando sembra che la speranza sia ormai svanita. Ma è difficile, perché ogni parola è un altro pezzo di dolore, ogni ricordo è un’altra cicatrice che si riapre.
Cosa mi aspetto per l’Afghanistan? Non lo so più. Forse una pace che sembra irraggiungibile, forse una speranza che non smette mai di svanire. Ma so una cosa: il mio cuore, sempre, resterà lì, tra le macerie di un paese che è stato tutto per me, anche se oggi è solo un sogno infranto”.
Tornerai mai a casa?
“Tornerò mai a casa? Non lo so, sinceramente. Ma ovunque ci sia pace, lì è la tua casa, e oggi, l’Italia è diventata la mia casa. Qui ho trovato una tranquillità che non avevo mai conosciuto, una serenità che mi era stata rubata. Mi sento felice qui, sto cercando di integrarmi, di ricostruire la mia vita, di imparare una lingua, una cultura, di iniziare tutto da capo. Ma dentro di me c’è una parte che non riesce a dimenticare, che non può lasciar andare completamente il passato, che ancora sogna un Afghanistan che non esiste più”.