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    Salario minimo europeo: un’occasione mancata per l’Italia

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    Il 15 novembre 2024 rappresentava una data cruciale per i lavoratori italiani: il termine ultimo formale per il recepimento della Direttiva europea 2022/2041 sui salari minimi adeguati. La direttiva è uno strumento pensato per garantire una retribuzione dignitosa e sostenibile a tutti i lavoratori dell’Unione europea. Nonostante il suddetto orizzonte temporale fosse ben noto, il Governo non ha colto l’opportunità di riformare un sistema che induce sempre più lavoratori nella povertà. L’immobilismo dell’esecutivo ignora l’urgenza di affrontare il problema della povertà lavorativa e rappresenta un’occasione persa per migliorare le condizioni di milioni di persone.

    Il quadro attuale

    Il sistema italiano si basa sulla contrattazione collettiva: questa, formalmente, copre la maggior parte dei lavoratori dipendenti. In Italia, esistono oggi oltre 900 contratti collettivi nazionali. Eppure, nella pratica, persiste il fenomeno dei “contratti pirata”, ossia accordi collettivi stipulati da sigle sindacali poco rappresentative, utilizzati per eludere gli standard salariali minimi fissati dai contratti collettivi nazionali di categoria. Messi a confronto, i salari stabiliti in questi ultimi contratti prevedono fino al 50% in meno rispetto a quelli previsti dai contratti collettivi nazionali ufficiali, e includono spesso condizioni peggiori, come minori obblighi sui contributi previdenziali o minori garanzie di sicurezza sul lavoro.

    Formalmente solo l’1% dei lavoratori italiani è inquadrato con contratti non rappresentativi. In realtà, questo dato nasconde una realtà più complessa, visibile soprattutto nei settori della logistica e del lavoro domestico, dove le retribuzioni possono scendere fino a 3-4 euro l’ora. Quest’ultimo fenomeno costituisce una delle principali cause di lavoro povero.

    Garantire la retribuzione minima 

    Un recepimento concreto della Direttiva europea avrebbe potuto rappresentare uno strumento per affrontare tali criticità. Pur non imponendo l’introduzione di un salario minimo legale, infatti, essa stabiliva parametri chiari per garantire retribuzioni “adeguate e trasparenti, tenendo conto di specifici criteri nazionali come il potere d’acquisto e il livello generale dei salari. Forniva inoltre parametri internazionali riconosciuti per monitorare che alla teoria della retribuzione adeguata, segua la pratica; esattamente il vulnus che si trova ad affrontare l’Italia. 

    L’inefficacia dei CCNL nel nostro Paese, infatti, è dovuta al fatto che essi non sono automaticamente vincolanti per tutte le aziende di un settore. In aggiunta, i contratti pirata di cui sopra altro non sono che contratti concorrenti al ribasso, sia sul salario che sulle tutele. Inoltre, allo stato manca un sistema centralizzato per il deposito e il controllo dei contratti collettivi. Non esistono, ad oggi, dati chiari e ufficiali sulla distribuzione dei salari e sul rispetto dei contratti.

    Il caso Ryanair

    Un esempio che evidenzia i problemi strutturali del sistema italiano è il caso Ryanair. Durante l’emergenza Covid-19 del 2020, il Governo italiano aveva condizionato l’accesso ad un fondo di aiuti da 130 milioni di euro al rispetto dei minimi salariali previsti nei contratti collettivi nazionali. Sebbene la Commissione Europea avesse inizialmente approvato la misura, il Tribunale dell’Unione europea ne ha successivamente invalidato l’attuazione, sostenendo che i contratti collettivi italiani non fossero universalmente rappresentativi e che imporli costituisse una violazione della libera prestazione di servizi. 

    Ryanair ha sfruttato questo vuoto normativo assumendo personale con contratti di lavoro irlandesi, ossia dotati di salari inferiori agli standard italiani. L’introduzione di un salario minimo legale, così come il rafforzamento dell’universalità dei contratti collettivi, avrebbe potuto limitare questo gap, garantendo condizioni di lavoro eque e prevenendo contenziosi futuri.

    Tra contraddizioni e inefficienze

    Purtroppo, però, non sono solo le controversie internazionali a mettere in evidenza le fragilità del sistema italiano: anche a livello interno emergono contraddizioni sempre più evidenti. La Corte di Cassazione, con due sentenze gemelle pubblicate a ottobre 2023, ha dichiarato che i salari previsti da alcuni contratti collettivi, anche se negoziati dai principali sindacati, non garantiscono i principi costituzionali di una retribuzione sufficiente e dignitosa, sanciti dall’articolo 36 della Costituzione. In entrambi i casi, i lavoratori coinvolti ricevevano compensi inferiori alla soglia di povertà pur lavorando a tempo pieno, evidenziando come il sistema non riesca ad evitare il fenomeno del lavoro povero. La Cassazione ha inoltre sottolineato che il giudice, di fronte a retribuzioni insufficienti, può basarsi su parametri esterni, come la soglia di povertà Istat o i dati sui salari medi, per stabilire un adeguamento salariale.

    Questa posizione si scontra apertamente con quella del CNEL, che continua a sostenere la capacità della contrattazione collettiva di garantire salari adeguati. Tuttavia, il crescente contenzioso e le decisioni giudiziarie dimostrano che l’assenza di una normativa chiara e universale sui salari minimi lasci spazio a contraddizioni e inefficienze che solo una riforma strutturale potrebbe sanare.

    Una riforma possibile? 

    Una riforma che introduca un salario minimo legale o che rafforzi il monitoraggio e l’applicazione dei contratti collettivi potrebbe apportare benefici concreti. Innanzitutto, migliorerebbe le condizioni di vita di molti lavoratori italiani che, nonostante siano formalmente occupati, godono spesso di condizioni di reddito insufficienti per un’esistenza dignitosa. Questo fenomeno – il lavoro povero – è particolarmente accentuato in settori caratterizzati da contratti non rappresentativi o da retribuzioni molto basse rispetto agli standard previsti. Inoltre, una maggiore trasparenza nel sistema retributivo permetterebbe di identificare e sanzionare i contratti pirata, consentendo così all’Italia di superare un modello economico basato su bassi salari e disuguaglianze, favorendo invece competitività, innovazione e crescita inclusiva.

    Infine, l’esperienza di altri Paesi in Europa, tra cui la Germania, dimostra che l’introduzione di un salario minimo legale non solo aiuta a migliorare le condizioni di lavoro, ma può anche essere un motore di crescita economica. La Germania ha introdotto il salario minimo nel 2015 e ha successivamente utilizzato i parametri della Direttiva europea per adeguare i livelli retributivi. Nonostante le sfide che sta affrontando il modello tedesco, dovute ad altre dinamiche, questa misura ha migliorato le condizioni di lavoro e ha avuto un effetto positivo sulla competitività economica. 

    Opportunità per l’Italia

    Per l’Italia, un passo simile sarebbe non solo auspicabile, ma anche necessario per affrontare le sfide di un mercato del lavoro sempre più fragile. In questo contesto, il dibattito sul salario minimo non dovrebbe essere inteso come un campo di battaglia ideologico, ma come un’opportunità per costruire un sistema più equo e sostenibile. Sebbene il termine fissato dall’Unione europea sia scaduto, non è tardi per intervenire. Una riforma del sistema potrebbe rappresentare un passo avanti decisivo per superare le attuali disparità e per garantire finalmente a tutti i lavoratori italiani un livello retributivo degno del contributo che offrono quotidianamente al Paese.

    A cura di

    Francesca Romana D’Antuono e Andi Shehu (Volt Europa)


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