Esiste un posto nel mondo in cui i funzionari addetti al cerimoniale istituzionale, quanto a protagonismo, si rivelano qualitativamente superiori persino alle intransigenti etichette che da decenni segnano tanto i film hollywoodiani quanto il mondo cristiano cattolico. Un Eden particolarmente esteso, chiamato Italia, in cui è possibile essere democraticamente eletti deputati e senatori della Repubblica per poi partecipare soltanto a 13 votazioni su 8.777, disertando così il 99,85% delle convocazioni in Aula. Un paradiso terreste, letteralmente parlando, se non fosse per l’estrema facilità con cui si affossano disastri immani quali il terremoto dell’Aquila e la valanga di Rigopiano, salvo poi lavarsi la coscienza raggiungendo le località interessate in concomitanza della chiamata alle urne mettendo in fila poche e simboliche parole di senso compiuto.
Vuoti normativi senza soluzioni
Buona parte dei problemi che condannano il Paese in una palude costellata da mediocrità e immobilismo vanta un curriculum che si allunga a dismisura anno dopo anno; basti pensare che l’eco della questione meridionale, dell’evasione fiscale e della criminalità organizzata risuona del tutto indisturbata nel Transatlantico della Camera dei deputati fin dal secondo dopoguerra.
Ora, ammesso e concesso il generale pressappochismo insito nei meandri della res publica, dovrebbe quantomeno preoccupare il fatto che le acque in cui naviga la società italiana non sono molto diverse da quelle torbide e maleodoranti in cui il 17 febbraio 1992 Mario Chiesa, dirigente socialista fagocitato dall’inchiesta Tangentopoli, scaricò una tangente appena ricevuta. A distanza di 33 anni, nessuno dei soggetti a vario titolo coinvolti in quella parabola discendente ha saputo fare tesoro di quanto accaduto, ed è così che le negatività di cui sopra sono state nient’altro che esacerbate, riportando cospicue conseguenze sul piano della credibilità internazionale.
Volendo essere oggettivi, l’Italia deve la propria arretratezza tanto alle manchevolezze politiche, di certo non ascrivibili ad una sola delle molte fazioni in campo, quanto all’impianto giuridico-istituzionale, che nel suo essere garantista talvolta diviene causa ed effetto della scarsa efficienza imputata dai cittadini.
Una politica svuotata di senso
Se mai un giorno dovessimo godere della possibilità di viaggiare nel tempo e mostrare ai nostri avi l’involuzione di quella stessa nazione faticosamente ricostruita, all’indomani della guerra, con buona probabilità lo smarrimento prenderebbe il sopravvento. A ben guardare, instaurare un parallelismo tra l’attuale frullatore multipartitico e quello venutosi a creare in concomitanza dei lavori dell’Assemblea Costituente – sconnesso e inconcludente il primo, virtuoso e profittevole il secondo – induce fenomeni e interrogativi riconducibili all’ambito della scienza, ma non quella politica. Procediamo con ordine toccando anzitutto gli aspetti espliciti.
Le istituzioni
Risalendo all’articolo 1 della Costituzione, possiamo dedurre che i cittadini, unici detentori della sovranità, debbano eleggere due rami parlamentari denotati da pressoché identiche funzioni. Poco importa se questi ultimi, data la frequente differente distribuzione dei seggi tra i vari partiti, anziché indirizzare l’attività dell’esecutivo capitalizzando le istanze sociali, siano di fatto fonti promotrici di perenni rimbalzi, veti incrociati e sistematici rallentamenti, puntualmente scaricati nei meandri di quel particolare dimenticatoio istituzionale conosciuto ai più come burocrazia.
E laddove la macchina statale risulta sorprendentemente priva di ostacoli, l’attività umana interviene alterando i risicati equilibri tra società ed istituzioni. A sostegno della tesi poc’anzi esposta, elenchiamo alcuni numeri significativi: settanta le proposte di legge presentate nel corso del 2024 per istituire nuove “Giornate nazionali”; tra di esse figura la Giornata degli abiti storici, già approvata da Camera e Senato, la Giornata nazionale del panettone italiano, la Giornata nazionale dell’ecospiritualità, senza comunque tralasciare la Giornata della cultura motociclistica, della scrittura a mano e del calendario gregoriano. Zero, invece, il numero delle leggi approvate per regolamentare le attività di lobbying, limitare i conflitti di interesse e garantire il diritto di voto a tutti i cittadini fuori sede, a prescindere dal tipo di elezione.
Ad alimentare questo bilancio perennemente negativo sul fronte della credibilità concorre poi la frenesia con cui si smantellano Governi, leggi elettorali, finanche elettorati, distinti sino al 2021 per Camera e Senato.
Politica e popcorn
Con onestà intellettuale, va altresì detto che le aule istituzionali soffrono la presenza di una patologia piuttosto contagiosa, nota come spettacolarizzazione, i cui deleteri effetti fanno persino rimpiangere la fermezza dell’ideologia. Capiamo meglio il punto facendo riferimento al febbraio 2013, mese nel quale si tennero le elezioni politiche a seguito dello scioglimento anticipato delle Camere, le prime in cui la ‘discesa in campo’ avvenne nel nome di una forza “né di destra, né di sinistra”.
Complice l’assenza di un risultato netto alle urne, la confusione dominava la scena pubblica, mentre i vari esponenti politici parevano afflitti da un non meglio precisato mutismo selettivo a causa del quale del venturo Governo non vi era neppure l’ombra. A complicare ulteriormente il quadro sopraggiunse l’imminente elezione del Presidente della Repubblica, e fu così che la partitica iniziò a mietere vittime. Con il parlamento in preda a lotte intestine di romana memoria, archiviato l’esito nullo di ben cinque votazioni, l’uscente Giorgio Napolitano fu costretto ad accettare un secondo mandato pur di evitare la degenerazione del caos.
Dure e solenni le parole pronunciate da Napolitano rivolgendosi ai parlamentari presenti in Aula dopo la rielezione: “quanto accaduto qui nei giorni scorsi ha rappresentato il punto di arrivo di una serie di omissioni e di guasti, di chiusure e responsabilità”. Si proseguì denunciando un “imperdonabile nulla di fatto” in merito alle riforme istituzionali di cui, pur avvertendo la necessità, non si ha tutt’oggi la benché minima cognizione di causa, salvo poi deprecare un Paese paralizzato da “calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi”.
Al di là della rigorosa semantica utilizzata, risultò particolarmente curioso il fatto che quegli stessi parlamentari ammoniti di incompetenza interruppero il discorso del Presidente con concitati applausi e standing ovation degne di un derby calcistico. Glaciale il commento del capo di Stato: “il vostro applauso a quest’ultimo richiamo che ho sentito di dover esprimere non induca ad alcuna autoindulgenza”.
Assunzione di responsabilità
Che sia la voracità con cui ci si assicura il proprio quarto d’ora di celebrità ad alimentare la bassa affluenza alle urne? Il dialogo in merito è tutt’ora aperto, benché la controparte istituzionale collabori a stento, mostrando più di una riluttanza a colmare lo scarto tra la quotidianità all’interno del Palazzo e la realtà cittadina. Ed è così che, scandagliando panoramicamente il contesto nel quale siamo calati, subiamo un mutamento tanto repentino quanto preoccupante: dal temere che il potere si concentri nelle mani di un solo individuo al comando, al non sapere a chi affidare il timone della nave in tempesta.
Il motivo è presto detto: sebbene democraticamente investiti di oneri ed onori, ci si sottrae al confronto pubblico e si perdono di vista le vere urgenze cui far fronte. Ecco spiegato perché i cittadini sono ancora in attesa di vedere ultimate alcune tra le più importanti infrastrutture pubbliche – il pensiero misto a rassegnazione va alla TAV Torino – Lione, all’autostrada A33 Asti-Cuneo, all’estensione dell’alta velocità lungo la direttrice Salerno-Reggio Calabria, nonché al ponte sullo stretto di Messina – tutt’oggi ostaggio delle numerose rotazioni copernicane susseguitesi nella storia repubblicana.
Il punto su cui riflettere è il seguente: res publica significa anche e soprattutto assunzione di responsabilità e armonizzazione delle parti in essere, ambedue operazioni malriuscite ai 68 Governi finora transitati per Palazzo Chigi. In estrema sintesi, no,non si stava meglio quando si stava peggio: la compattezza al di là dell’ideologia e la messa a terra della retorica paiono proprietà pressoché aliene alla politica di qualsiasi colore conosciuta negli ultimi 40 anni.
A cura di Fiammetta Freggiaro – Vicedirettrice editoriale vicaria
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