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    Snazionalizzazione: sloveni e croati nel ventennio fascista

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    Già a partire dagli anni precedenti l’unificazione del Regno, prima ancora che sulla lingua o sulla forma di governo, il dibattito era sui confini. “Dall’Alpi a Sicilia“, ma fin dove avrebbero dovuto – e avrebbero potuto – spingersi le linee di demarcazione? All’alba della neonata Italia, si fece dunque subito strada il tema delle “terre irredente”: tra tutte, Trentino, Istria e Dalmazia. Il concetto alla base era piuttosto semplice: vuoi per una ragione storica, vuoi per una ragione etnico – linguistica, questi territori dovevano appartenere al Bel Paese. Poco importava la frammentazione culturale di tali realtà, ognuna di esse un caso a sé stante: a prescindere da chi le abitasse – sloveni, croati, germanofoni o italiani – il tricolore doveva risultare egemone su tutti.

    Si creò dunque la necessità politica di un termine ombrello che potesse racchiudere, e in qualche modo giustificare, le ambizioni della classe dirigente su queste regioni. Il 23 agosto 1863 il glottologo goriziano Graziadio Isaia Ascoli pubblicò, in forma anonima, sulla rivista milanese “Museo di famiglia” un breve articolo intitolato “Le Venezie”, del quale rivendicherà la paternità solo diversi anni più tardi:

    diremo Venezia Tridentina o Retica (meglio Tridentina) quello che pende dalle Alpi Tridentine e può aver Trento per sua capitale; e Venezia Giulia ci sarà la provincia che tra la Venezia Propria e le Alpi Giulie ed il mare rinserra Gorizia, Trieste e l’Istria.”

    È qui che vediamo comparire per la prima volta la Venezia Giulia.

    IL PROCESSO DI SNAZIONALIZZAZIONE

    La mancanza di un’identità precisa, frutto di un susseguirsi di popoli e dominazioni della più ampia specie nel corso dei secoli, rese particolarmente difficile identificare in forma univoca il territorio. A tal proposito, Olinto Marinelli, uno dei massimi geografi italiani, scriverà che “né la storia né la geografia fecero per il passato riconoscere nella Venezia Giulia un’unità, tant’è vero che se ne deve cercare un nome”. Tutto ciò denota una spiccata tendenza imperialista del Regno d’Italia: il reclamo su queste terre avvenne anche per mezzo di un’improbabile manifesta superiorità sulle popolazioni comunemente – e, soprattutto, dispregiativamente – definite “slave”.

    I nuclei di sloveni della zona di confine non hanno mai avuto una propria unità nazionale, né una propria civilità”- Livio Ragusin Righi, giornalista e scrittore triestino.

    Questo fu un tratto comune anche all’Italia fascista, che attuò, proprio in questa articolata zona geografica, una forte politica di snazionalizzazione degli “slavi” giuliani; quest’ultima fu realizzata attraverso misure di vario genere: distruzione della classe dirigente, riduzione numerica del gruppo etnico, cancellazione della scuola e della stampa in lingua slovena, italianizzazione dei cognomi, potenziamento delle comunità italiane tramite nuovi insediamenti. E chi più ne ha più ne metta.

    L’OPPOSIZIONE CHE ARRANCA

    Almeno fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Roma non trovò grande contrarietà alle sue politiche discriminatorie. Le più grandi forme di dissidenza arrivavano dalla mal organizzata opposizione e da alcuni esponenti delle istituzioni religiose.

    Nel gennaio del 1928 i vescovi di Trieste, Gorizia e Pola inviarono una lettera a Mussolini, in cui chiedevano rispetto per le associazioni cattoliche e le loro attività culturali, oltre che la possibilità di poter impartire l’istruzione religiosa nelle chiese in lingua slovena e croata. In seguito a questa richiesta, furono allontanati diversi sacerdoti slavi e si pensò a una serie di provvedimenti contro le pubblicazioni religiose nelle loro lingue. Con la stipula dei Patti Lateranensi, venne ancora meno quel briciolo di autonomia del clero cattolico locale: la Chiesa, di fatto, accettò la preminenza degli interessi italiani rispetto alla tutela dei diritti delle minoranze.

    Per quanto riguarda il fronte antifascista, i problemi a livello locale e nazionale erano gli stessi: mancava un’unità di intenti, c’era una scarsità di legami e, talora, della discordia tra i vari gruppi; comunisti, antifascisti di stampo liberale e democratico, sloveni e croati avevano delle divergenze inconciliabili. Fattore, questo, che rendeva assai complicata una forma di dissidenza efficace.

    CONCLUSIONE

    L’opposizione alla politica di assimilazione e repressione delle minoranze slovene e croate mostra la complessità e la resilienza delle identità culturali e nazionali della regione.

    Chi oggi viene, vive o nasce sul confine tra Italia e Slovenia, nel cuore del Vecchio Continente, trova una realtà interconnessa, libera da obblighi, imposizioni e restrizioni, simbolo della convivenza civile.

    Le nuove generazioni rabbrividiscono al pensiero che qualche decennio fa il confine fosse militarizzato, proprio come i loro genitori impallidivano al racconto della Grande Guerra. Il tempo ha cicatrizzato gran parte delle ferite. Nella speranza che, un giorno, anche l’ultimo dei tagli potrà essere ricucito.

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