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    Lo spettacolo del dolore tra cinema e propaganda

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    La psicanalisi ci ha mostrato che la sofferenza, in qualche modo, ci piace. I mass media e la politica ci hanno dato prova che il dolore si vende, e anche bene. Perché ci fa sentire empatici e ci lava la coscienza, per testimonianza o perché – con le parole polemiche di Quentin Tarantino – la violenza «is so much fun, Jan

    Social Born Killers

    Nel 1994, anno fortunato per il cinema, uscì nelle sale Assassini nati (Natural Born Killers), film che portava inizialmente la sceneggiatura del giovane Tarantino, reduce da Le iene e Pulp Fiction, sotto la regia di Oliver Stone. Tuttavia, il regista volle impiantare la pellicola sul rapporto perverso tra la cronaca nera, le biografie degli assassini e il gusto per la violenza splatter nascosta nella platea delle società industriali, da una parte, e il mondo dell’industria mediatica, dall’altra. 

    Una violenza pura, spesso insensata e improvvisa, imprevedibile. La stessa che i media, per un verso, vogliono astrarre dalla storia e dalla società, ma che tuttavia coinvolgono sotto forma di problema individuale attraverso ricostruzioni minuziose, perfino patologiche, delle biografie dei criminali, date liberamente in pasto ad un pubblico che si mostra tutto galateo e buona educazione. E i criminali altro non aspettano: il loro quarto d’ora di notorietà, prima che la violenza di Stato si abbatta su di loro.

    Una situazione win-win tra perbenisti ipocriti in cerca di svago o carriera e devianti reali, giocando a guardie e ladri mentre in realtà, nel profondo delle esistenze, si collabora alla soddisfazione – sulla carne o sullo schermo – degli appetiti di dolore. Ciò che i canoni di accettabilità sociale non approvano viene girato nella frittata della pseudoindagine, che risveglia una pulsione primitiva e sfoga i desideri silenziosi della psiche umana nelle aule di tribunale o negli studi televisivi. A ognuno la propria parte della storia, a ognuno il proprio copione.

    Ciò non piacque a Tarantino, che pensava sì ad un’opera cruda, ma con i particolarissimi dialoghi e con la violenza fine a sé per cui Tarantino si distingue da sempre. Stone ebbe la meglio – secondo una versione della storia, litigando pesantemente con lo sceneggiatore e beccandosi anche un pugno sul naso – se non altro perché la casa di produzione preferì l’idea del regista. Per ironia, il film che criticava il meccanismo perverso dell’industria dello spettacolo finì per alimentare lo stesso.

    Assassini nati – il cui titolo sembra essere una parodia del concetto stesso di naturalità del killer – divenne un film amato da diversi stragisti e serial killers. In una società profondamente diseguale, razzista dall’origine, armata fino ai denti e pervasa da narrazioni eroiche su fatti come il genocidio dei nativi americani, la proiezione del film era un quasi scontato sbocco dell’intellighenzia critica. In una tale società – per molti versi identica oggi, dopo trent’anni – il film di Stone non sarebbe da considerare causa di violenza. Se qualcuno decide di imbracciare un’arma e compiere un massacro forse ci sono motivazioni e contesti più profondi del “L’ho visto in tv!” Non è mica davvero una puntata dei Griffin.

    Invece, il regista venne portato in tribunale e nell’opinione pubblica venne accusato di aver alimentato diversi casi di omicidio. Colmo dei colmi, lo scrittore John Grisham – che aveva costruito una carriera come avvocato e scrittore di gialli, mica romanzi rosa e poesie sdolcinate – fece causa alla casa produttrice di Assassini nati quando un suo amico venne ucciso da un uomo che diceva d’essersi ispirato al film. Natural born parasites.

    A distanza di tre decenni dall’annus mirabilis 1994, su consiglio di un amico, appassionato anch’egli di cold cases e disgrazie su schermo, mi sono messo a guardare l’appena uscita Monsters: La vera storia di Lyle ed Erik Menendez, una miniserie che non è una finzione, né un documentario. Non è una finzione perché prende le mosse da un fatto di cronaca reale, il doppio parricidio commesso dai fratelli Menendez, giovani rampolli di una ricca famiglia statunitense; vittime di abusi in famiglia, prima, e ereditieri di una sconsiderata ricchezza, poi.

    Non è nemmeno un documentario, perché la serie mostra la storia e il processo ai fratelli, ma da ogni punto di vista, perciò non giunge a una verità definitiva – che d’altronde nessun palazzo di giustizia ha scritto ancora, mentre per ironica coincidenza proprio in questi giorni il caso rischia di essere riaperto dalla magistratura californiana. Comunque, il vero Erik Menendez da dietro le sbarre a San Diego ha fatto sapere di non aver apprezzato l’opera.

    Dobbiamo altresì notare una differenza fondamentale. Natural Born Killers mostra i modi in cui la violenza può essere propinata sui media come totalmente gratuita, tant’è che uno dei protagonisti, durante l’intervista finale, si definisce con soddisfazione appunto «assassino nato». Che poi tutto il film mostri le violenze subìte dalla futura coppia killer durante l’infanzia e metta in bocca e in mano al braccio esecutivo della Giustizia – i carcerieri e i poliziotti – violenze pari a quelle dei condannati, questo è il segreto di Pulcinella del film. (Per curiosità: nelle immagini dei titoli di coda del film, si scorge la reale deposizione in tribunale di Erik Menendez in lacrime, risalente giusto al 1993.)

    Questo stesso segreto, anche passando per il caso OJ Simpson, diventa invece il pane quotidiano di Monsters. Nuovamente, il titolo sembra una parodia: la serie ci mostra tutti i moventi per cui i fratelli hanno commesso il parricidio; dalla vendetta per gli abusi alla brama dell’eredità da cui temevano d’essere esclusi. Lyle ed Erik Menendez sono raffigurati come due snob ricconi figli di papà, personaggi abbastanza comuni nella letteratura dall’alba dei tempi. Due giovani un po’ terrorizzati e un po’ annoiati che commettono una tragedia di cui in parte si pentono: molto umani nella loro drammaticità e nella loro strafottenza, ma non certo due mostri!

    Ah, prima di chiudere il paragrafo: la serie sui fratelli assassini è arrivata subito al primo posto degli spettacoli più guardati su Netflix. Selome Hailu, da Variety, però chiosa: scarsini, la serie su Dahmer ha fatto molto meglio! Ora dovremo capire come se la caverà la mini-serie Qui non è Hollywood: questa, finora, ha guadagnato solo una non così esaltante denuncia del Comune di Avetrana perché, a suo dire, rovinava la reputazione della cittadina. Come è stato fatto notare, se la reputazione è questa non è responsabilità della Disney, ma di come hanno agito certi abitanti relativamente al caso Scazzi. Anche qui si guarda il dito mentre si fissa la Luna?

    Iconografie palestinesi

    Voltiamo in parte pagina e andiamo in Palestina. Se è vero che l’industria culturale vive nelle pieghe più oscure della società dello spettacolo, è anche vero – seguendo Guy Debord – che lo spettacolo è un «rapporto sociale mediato da immagini», di cui la dimensione della gerarchia sociale e della propaganda politica fanno prepotentemente parte.

    Nell’ultima, attuale fase della questione israelo-palestinese, cominciata con l’offensiva israeliana dopo i fatti del 7 ottobre 2023, sia gli apparati sionisti che quelli filopalestinesi hanno rappresentato il proprio spettacolo del dolore. Tanto più particolare perché usano gli stessi oggetti nella rappresentazione, i componenti popolo palestinese – che per il governo israeliano, i suoi sostenitori e megafoni non sono altro che animali umani, non civili né civilizzati, mentre per le forze palestinesi sono la base del proprio compito storico.

    Le operazioni di pulizia etnica condotte da Israele sono, su vasta scala, disponibili in pochi click su TikTok o su altri social network. Incredibilmente – dato che spesso mostrano crimini di guerra o comunque degradazioni della dignità dei palestinesi, anche per via delle indagini della ICJ – i soldati israeliani hanno grande voglia di mostrare le proprie efferatezze al grande pubblico on line. Non per difetto di pudore o impazienza da reclute: è la stessa narrazione ufficiale sionista a spronarli. Quando Netanyahu sbraita minacciando di ridurre i palestinesi come il suo dio fece con gli amaleciti – ossia sterminati dal primo all’ultimo, senza pietà né civili – altro non fa che ribadire questa posizione genocida.

    Dall’altra parte, gli effetti delle operazioni israeliane vengono fatte conoscere al pubblico internazionale dal manipolo di giornalisti sopravvissuti nella Striscia di Gaza o da improvvisati reporter telefono-alla-mano. Così abbiamo pezzi importanti come Motaz Azaiza, fotogiornalista palestinese che su Instagram conta su quasi 18 milioni di follower e usa la piattaforma per mostrare l’orrore. Ci vuol fegato per fare il giro di account come quello di Azaiza e dei suoi colleghi: una violenza reale e gratuita, non patinata dall’industria mediatica. Una violenza che però va vista, in quanto testimonianza dell’orrore e della pulizia etnica. 

    Abbiamo anche tutti i video amatoriali girati direttamente dai residenti gazawi, testimoni involontari anch’essi. È così che il mondo ha potuto osservare il ragazzo che bruciava vivo, attaccato a una flebo in un ospedale improvvisato, o il padre che sollevava in aria alle telecamere il proprio figlioletto infante decapitato – entrambi vittime di bombardamenti israeliani in aree non militari. Immagini fortissime, ma è significativo lo spirito di questo padre che mostra a tutti noi il cadavere spezzato del figlio: non si fa prendere dalla furia o dal dolore, è lucido nell’atto. Sa che, prima della perdita individuale, deve far capire cosa è successo, deve darne prova. E il suo decapitato bambino è la prova più efficace in assoluto.

    Conclusioni

    Conviene chiudere l’articolo con l’evento recente più iconografico della Striscia: l’uccisione di Yahya Sinwar, storico dirigente di Hamas e tra gli organizzatori militari del 7 ottobre. Il video dell’uccisione di Sinwar, colpito (senza essere riconosciuto fino all’autopsia post mortem) prima in combattimento e poi finito tra le macerie da un drone, è stato pubblicato dallo stesso governo israeliano, con evidente soddisfazione.

    Il video è stato osannato come prova della indiscutibile capacità israeliana di colpire i propri nemici; Enrico Mentana non ha perso tempo a pubblicare su Instagram una cruda foto del cadavere col cranio trafitto – celerità mai dimostrata per le immagini palestinesi. Così hanno creato un nuovo martire. I palestinesi non hanno visto nel video un nemico abbattuto, ma un politico impegnato in prima linea e che, fino all’ultimo istante di vita, ha opposto resistenza alla tecnologia militare israeliana e ai suoi manovratori.

    Forse senza troppe sorprese, Sinwar pare fosse nato in un campo profughi, a Khan Younis, sotto occupazione israeliana. Con la sua uccisione, lo spettacolo del dolore sionista ha di fatto dato l’assist migliore alla creazione di migliaia di nuovi Yahya Sinwar del futuro, dopo aver dato già i natali politici all’originale.

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