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    Spoiler, una politica diversa è possibile

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    I giovani pretendono una politica visceralmente diversa, quanto meno da quella conosciuta finora. In soldoni, uno o più partiti fondati ex novo, ma non solo: un mezzo cui appellarsi per debellare ingiustizie e corruzioni. Uno state of mind che oserebbe tutto fuorché rimpiangere gli opinabili tempi andati. Una Corte Suprema capace di avanzare ragioni adeguatamente fondate, e non il consueto ‘amichettismo’ da quartiere. Insomma, un servizio pubblico degno di questo nome.

    La politica che (non) comunica

    Fin dai tempi più remoti ci è dato sapere che l’uomo è tale per almeno tre caratteristiche fondamentali: la parola, la ragione e l’emotività. Non esiste ambito sociale che, fino a prova contraria, possa fare a meno di esse. Qualsiasi intento, una volta formulato, va comunicato alla controparte, bilanciando sentimenti e razionalità con ponderazione. “Non si può non comunicare”: così dice il primo assioma della comunicazione elaborato dalla Scuola di Palo Alto. D’altronde, siamo esseri sociali – volenti o nolenti – veniamo a patti con il mondo circostante, comprendendone tutte le sue sfaccettature, anche nel caso in cui alcune di queste possano apparire ai nostri occhi irrazionali o sfuggenti. Nell’assolvere questo compito, potremmo con buone ragioni sostenere di fare politica: definiamo il perimetro attuale e futuro di quel posto chiamato mondo incanalando nella rappresentanza di interessi il dialogo e l’ascolto. Non esiste dialogo senza ragione e ascolto – per lo meno quello effettivo – senza emotività. 

    A maggior ragione quando si tratta di interessi repressi e di aspettative condivise, ci si avvale di un ‘codice’ per trasmettere efficacemente le proprie intenzioni. Nel corso dei decenni, esso è però notevolmente cambiato: dalle ideologie agli status symbol, per poi assumere forme non meglio precisate e, talvolta, latitare del tutto. Difatti, il contesto che ci ospita è quello in cui la fiamma ardente dell’ideologia ha smesso di ardere e i valori predominanti non sono più quelli fondanti la Prima Repubblica. “Quando la gatta non c’è, i topi ballano” recita un antico proverbio. Ma no, purtroppo non in questo caso. Ciò che fino a poco tempo fa fungeva da ‘collante’ – appunto, la politica – oggi invece è per lo più un riempitivo; persino nelle aule parlamentari, investiti da onori e oneri, si fa tutto fuorché politica reale. A ben guardare, il fatto che la politica partitica abbia da tempo ceduto il proprio scettro non desta affatto scalpore. Ora, il dramma subentra con una nuova tendenza, tipica della tragicomica Terza Repubblica: tentare qualsiasi mezzo pur di rimanere sulla cresta dell’onda. È forse questa l’era della surfing-politica? Non sia mai che gli elettori perdano di vista l’ultima battuta sui trend del momento… 

    Eccessiva personalizzazione, spettacolarizzazione dirompente, incapacità di ergersi a ‘megafono’ della quotidianità, mancanza di chiarezza circa la strada e i passi da percorrere: troppi ‘rumori’ disturbano la corretta trasmissione del segnale civico lungo quel canale – tanto importante, quanto debole e fragile – che è la rappresentanza democratica. Numerose le istanze che, una volta avviato tale processo, finiscono per non vedere mai luce. 

    Con un artificio retorico, potremmo assimilare quest’ultima situazione a una cabina telefonica dove, una volta inserite le monete e composto il numero, compare una scritta: “fuori servizio”. Segue da qui un vero e proprio cortocircuito: in mancanza di un retroterra comune, ci si relaziona con l’altro ma senza successo. Ci si attiva, si prende posizione, per quanto possibile si “diffonde il verbo” sperando in un repentino cambio di passo. Cambio di passo che, puntualmente, viene rimbalzato direttamente al mittente o, peggio ancora, represso con forza, quasi come a indicare la linea silenziosa dell’ordine da mantenere.

    Apatia e sfiducia

    Vittime dell’indifferenza dilagante, si diventa spettatori persino della propria esistenza. Dilaga perciò l’idea che la partecipazione politica, quanto meno quella organizzata e tradizionale, non porti a nulla di concreto. Lo status quo diviene particolarmente stretto e la normalità statistica viene confinata al dimenticatoio. Iniziano scontri, manifestazioni, scioperi in piazza: occasioni, queste, valide per denunciare il cosiddetto malessere democratico, nonché lo scollamento tra istituzioni e mondo civile, élite e popolo, classe dirigente e semplici funzionari. 

    Nel tentativo di arrestare la parabola impetuosa dell’astensionismo, si redigono discorsi dai toni accademici, si editano podcast, addirittura si mobilita il Festival di Sanremo, ma alla prova dei fatti nulla cambia. Anzi, se possibile si giunge alla conclusione con un bilancio doppiamente negativo. Basti ricordare che, per la prima volta nella storia repubblicana, in occasione delle elezioni europee 2024 l’affluenza alle urne è scesa sotto il 50% (49,7% dati Ipsos). E proprio qui si è toccato il punto più basso: si prende atto dell’astensione, ma si rimane asettici di fronte alla realtà. Non ci si interroga su come e dove intervenire. Si fa persino fatica a regolamentare una volta per tutte il voto dei cittadini fuori-sede. Tutto questo ripetendo il consueto mantra del “passare il testimone alle nuove generazioni”. 

    Proviamo, dunque, a tirare le fila di quanto detto finora: i beceri infantilismi tra maggioranza e opposizione fanno tutt’oggi la parte del leone. La sterile retorica destra–sinistra rallenta i lavori nei rami parlamentari. I partiti politici, cedute le armi, hanno fatto della staticità e della frivolezza il proprio marchio di fabbrica. Insomma, l’intera politica ne esce indebolita. Potremmo poi proseguire dicendo che quella che stiamo vivendo è una società piena zeppa di confusione: non solo semantica – pensiamo ad esempio alle ‘etichette’ nate in virtù di schieramenti ed alleanze corpose, ma pur sempre pro tempore – ma anche cognitiva. L’impressione è che chi debba fornire un manuale d’istruzioni per orientarsi in quel frenetico cantiere a cielo aperto che è la società odierna, per primo non lo possegga affatto. Come si può, allora, pretendere di ricevere fiducia, attraverso il voto, data la mancanza della ‘cassetta degli attrezzi’ necessaria alla res publica

    Res publica significa incontrare comunità e territori, prendere contezza delle problematicità esistenti. Dare voce a chi non ce l’ha. Ma anche maneggiare il diritto, saper leggere o redigere un bilancio d’esercizio, comprendere il funzionamento della pubblica amministrazione. Tutti compiti certamente molto gravosi, ma che dovrebbero avere in comune quell’idea di vocazione di cui già Max Weber parlava nel suo celebre saggio “La politica come professione”. Vocazione che, di certo, pullula tra i più giovani, benché quasi demonizzata. Viene, allora, da chiedersi se tornerà mai a risplendere quella visione pregna di valori annunciata da Weber: difficile dare, oggi, una risposta a questo interrogativo. Per il momento, possiamo soltanto constatare una generale tendenza ad avvalersi di quello che David Kaheneman ha definito “Sistema 1” del cervello: un percorso di economia cognitiva, tanto veloce quanto non curante della complessità del vivere sociale; incline allo scontro piuttosto che all’incontro. Esso porta l’attività politica sempre più distante dal dialogo e l’ascolto di cui parlavamo in apertura e, per di più, allontana le nuove generazioni. Le stesse generazioni che vorrebbero essere maggiormente incluse in virtù delle proprie capacità ed esperienze. 

    Ma non tutto è perduto…

    Ebbene, alla luce di quanto detto, chi reputa i giovani incuranti della politica si sbaglia di grosso. Ciò da cui si prende distanza è il sistema politico – i suoi tatticismi e i suoi cambi di casacca, le sue logiche di equilibrio, la sua visione troppo spesso a breve termine – non la politica. Non a caso, quest’ultima continua a prosperare via social. Gli esempi in questo senso non mancano: la raccolta firme contro l’autonomia differenziata e il DDL Sicurezza, ma anche quella pro cittadinanza. Valanghe di adesioni, nel vero senso del termine. Degne di menzione sono anche la campagna per un aborto libero e accessibile in Europa e la petizione “Italy needs sex education”. Tutti esempi di attivismo giovanile partito dal basso.

    Sono moltissime le ragazze e i ragazzi impegnati quotidianamente nell’associazionismo e nel sociale: meriterebbero un ruolo da protagonisti nell’architettura politica, invece sono perennemente confinati al rango di comparsa. Il loro operato viene ostacolato, nonché accusato di essere “troppo”: troppo incalzante, troppo diretto e sincero, troppo radicale. Detto in termini spiccioli, troppo scostante rispetto al recente passato, e poco incline alla subordinazione. Un fastidio per il sistema politico tradizionale, insomma, che va “bonificato” con gli appositi repellenti, esattamente come si fa con le zanzare. Molto meglio percorrere sentieri già battuti, perpetuare unidirezionalità e etichette prestabilite. 

    Per chi non se fosse ancora accorto, un simile modus operandi è tramontato circa 30 anni fa. Oggi, chiunque tenti di procedere per compartimenti stagni andrà sicuramente a sbattere contro un muro. Nel frattempo, il mondo è cambiato e la trasversalità delle competenze allo stato attuale è imprescindibile. Lo stesso vale per la gestione della cosa pubblica.

    Cara partitica, il vento è cambiato – e sta cambiando ulteriormente – e del tuo più volte attestato dilettantismo le nuove generazioni ne hanno le tasche piene… A quando il rinnovamento?

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