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    Stati Uniti e Cina: le sfide per il dominio marittimo a Panama ed a Kra

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    La sfida geopolitica del nuovo secolo affonda le sue radici nelle infrastrutture strategiche. Nell’era in cui il commercio globale è dominato dalle mastodontiche portacontainer dei ricchi armatori, i corridoi logistici diventano i cardini di un nuovo campo di confronto, che dai confini terrestri si è progressivamente spostato sulle rotte marittime e sulle loro strettoie più cruciali. 

    Panama, al centro dell’attenzione nelle ultime settimane, rappresenta uno degli snodi più importanti del commercio mondiale, oltre a costituire un elemento chiave della strategia talassocratica statunitense. A questo fondamentale canale, la Cina risponde con un’opera altrettanto imponente, destinata a trasformare gli equilibri geopolitici del sud-est asiatico e, potenzialmente, del mondo intero: il canale di Kra. 

    Chi domina il mare domina il mondo

    I principali attori internazionali che aspirano al primato egemonico sull’intero globo non possono evitare di confrontarsi con il mare. I grandi imperi della storia hanno sempre elaborato una strategia navale per ampliare e consolidare la propria influenza. I Romani sapevano bene che, per sconfiggere Cartagine, sarebbe stato necessario dominare il mare che separava le due terre e, di conseguenza, acquisire una certa maestria nella conduzione della guerra navale. Tuttavia, la guerra non è l’unica strategia applicabile nel contesto marittimo, e la forza non rappresenta la risposta a tutte le esigenze di potenza di un impero. Questo lo aveva compreso già Plinio il Vecchio, che documentò anni di commerci regionali che i Romani intrattenevano con i popoli vicini e lontani.

    La svolta decisiva in questa grande storia di contrapposizione tra terra e mare è rappresentata dagli inglesi. Il Regno Unito non è un territorio come gli altri. La sua natura insulare, non solo dal punto di vista morfologico ma anche culturale, ha ridisegnato completamente le logiche navali transcontinentali, permettendo all’Impero Britannico di consolidare il proprio ruolo di superpotenza mondiale nel lungo periodo. Ciò che distingue gli inglesi dagli altri popoli marittimi è proprio la loro visione strategica e dimensionale: i Veneziani, ad esempio, hanno sempre concentrato la loro attenzione su territori vicini, mai troppo lontani, limitando il raggio d’azione della Repubblica al commercio regionale.

    Gli inglesi, invece, come nessun altro popolo al mondo, furono i primi a oltrepassare seriamente le proprie frontiere marittime, addentrandosi con decisione nella dimensione oceanica. Questa svolta riscrisse inesorabilmente il destino della geopolitica terrestre e, soprattutto, offrì all’essere umano una nuova prospettiva di sé e dello spazio circostante. Per la prima volta, l’uomo entrava in collisione con i propri timori: la consapevolezza di vivere su una terra molto più vasta delle proprie capacità di dominio. Eppure, al contempo, emergeva un’intrinseca e feroce volontà di sottometterla a sé stesso attraverso il controllo dei mari.

    Da qui l’affermazione di Alfred Thayer Mahan, geografo e ammiraglio di spicco della marina statunitense: “Solo lo Stato che ha il dominio del mare controlla le comunicazioni e, quindi, il mondo, dal momento che ne controlla le ricchezze.” Questi principi, introdotti in primis dagli inglesi attraverso il loro colosso imperiale, costituiscono le fondamenta delle strategie della geopolitica contemporanea. Per questo, Cina e Stati Uniti non faranno un passo indietro e la guerra commerciale dei mari rappresenta il punto decisivo per riscrivere o consolidare le sorti globali. 

    La preziosità di Panama

    Nelle scorse settimane abbiamo assistito alle dichiarazioni controverse del neo-eletto presidente Donald Trump riguardo alla gestione del Canale di Panama, auspicandone un ritorno completo sotto la sfera d’influenza degli States. Il tycoon, inoltre, ha minacciato che questa operazione sarà portata a termine a qualsiasi costo, anche ricorrendo all’uso della forza.

    Ma perché Panama è così importante per gli statunitensi? Il continente americano occupa una porzione significativa delle terre emerse. L’area settentrionale è caratterizzata da un clima freddo ed è soggetta a “glaciazioni” che impediscono il passaggio delle navi. L’impiego di imbarcazioni rompighiaccio, inoltre, comporterebbe costi elevatissimi per le compagnie navali. Scendendo verso l’America Latina e arrivando al sud del continente, le navi commerciali, che dai porti statunitensi devono raggiungere le rotte transcontinentali, sarebbero costrette a circumnavigare una vasta porzione di terra, con un conseguente aumento dei costi di carburante e di tempo. Nelle dinamiche commerciali, ciò si traduce in un solo risultato: spreco di denaro. Proprio per questo oggi Panama vale 270 miliardi di dollari trasportati attraverso navi portacontainer. 

    Se si escludono le dinamiche prettamente commerciali, vi è un’altra questione da non sottovalutare. Gli Stati Uniti possiedono senza alcun dubbio la Marina più potente al mondo: dal punto di vista logistico e ingegneristico, le forze navali statunitensi non conoscono rivali nei mari globali. Tuttavia, avere due oceani a ridosso delle proprie coste, l’Atlantico a est e il Pacifico a ovest, significa trovarsi di fronte a due blocchi geopolitici distinti e dover affrontare le relative implicazioni strategiche. 

    In questo contesto, la possibilità di muoversi rapidamente da un oceano all’altro è cruciale. Il Canale di Panama, grazie alla sua capacità di collegare in tempi estremamente ridotti le due sponde del continente, rappresenta un elemento strategico imprescindibile per la dottrina talassocratica della Marina militare statunitense, una risorsa di importanza vitale e, per questo, intoccabile. 

    La minaccia cinese

    Ma quali sono le motivazioni che hanno spinto il tycoon a minacciare l’utilizzo della forza sul territorio panamense per riconquistare il pieno controllo del Canale? La risposta è semplice: i cinesi.

    Possiamo tranquillamente affermare che uno dei pilastri della rinascita economica – e, se vogliamo, anche neo-imperiale – della Cina risiede nel mare e nella sua straordinaria capacità infrastrutturale di dominare buona parte dei commerci transcontinentali. Oggi, i porti cinesi gestiscono il 55% del traffico container globale. Una cifra impressionante, soprattutto se consideriamo che fino a pochi decenni fa il Paese viveva in condizioni di estrema povertà e precarietà economica. Tuttavia, l’ambizione di Pechino non si limita alla costruzione di infrastrutture strategiche lungo le coste orientali della propria Repubblica. La Cina sta ampliando la propria sfera d’influenza in molte aree del mondo, tra cui, appunto, il Canale di Panama.

    La Hutchison Port Holdings, una holding cinese del commercio navale, è il socio di maggioranza di due importanti hub portuali situati sulle rispettive sponde oceaniche: il porto di Balboa e quello di Colón. Nonostante le autorità panamensi abbiano cercato di rassicurare gli americani sulla sicurezza del Canale e sulla presunta assenza di interferenze cinesi nelle questioni strategiche legate agli Stati Uniti, da Washington emergono fondate preoccupazioni. Si teme, infatti, che Pechino possa utilizzare queste infrastrutture per raccogliere informazioni sensibili, da sfruttare poi a discapito degli interessi statunitensi.

    La Panama cinese: l’istmo di Kra

    I cinesi, però, devono affrontare una questione che continua a mettere in difficoltà il loro ruolo di secondo attore egemone nell’ambito della talassocrazia globale. Pechino, infatti, per sua natura sia infrastrutturale che storica, è tipicamente un grande esportare di beni all’estero. Tuttavia, affinché le navi che partono dai porti della Cina orientale possano arrivare fino a quelli europei, è necessario che attraversino uno stretto che rappresenta un vero e proprio dilemma per la dottrina marittima cinese: lo stretto di Malacca.

    Malacca è una zona estremamente sensibile e, al tempo stesso, fondamentale. Si tratta di un’area soggetta a una forte presenza di pirateria aggressiva, che rappresenta una minaccia costante per le navi commerciali che utilizzano lo stretto per raggiungere le diverse aree del mondo. Per Pechino, lo stretto di Malacca è di importanza cruciale in quanto vale all’incirca 15,2 milioni di barili di greggio al giorno, ma costituisce anche un problema reale che ostacola la capacità delle navi portacontainer cinesi di operare con efficienza e velocità. Mai come nel commercio mondiale il tempo equivale a denaro.

    Perciò, Pechino ha deciso di investire altrove, avviando un progetto infrastrutturale di portata colossale: un canale nell’istmo di Kra, in Thailandia. Si tratta di un’iniziativa che, secondo le ultime stime disponibili, avrebbe un costo di 20 miliardi di dollari. Una cifra impressionante che, per Pechino, rappresenterebbe una garanzia di sicurezza strategica, nonché la punta di diamante della Belt and Road Initiative, utile a sovvertire definitivamente l’attuale ordine globale talassocratico. 

    L’Istmo di Kra, nel sud della Thailandia | immagine Google Maps

    Ovviamente, le problematiche, sia interne che esterne, non mancherebbero. Dal punto di vista thailandese, il progetto comporterebbe un arricchimento significativo del proprio asset infrastrutturale, ma i cinesi difficilmente concederebbero un passaggio libero nel canale ad altri attori internazionali. Questo lo renderebbe, di fatto, un’infrastruttura ad uso esclusivo del Dragone. Inoltre, l’impatto ambientale e culturale del progetto sarebbe devastante per il territorio e per la popolazione thailandese, poiché dividerebbe letteralmente il Paese in due e considerando la delicata situazione politica nella Thailandia meridionale, dove sono attivi gruppi separatisti di matrice islamica. 

    In conclusione 

    Questo imponente progetto contribuisce, in parte, a spiegare la crescente presenza occidentale, in particolare americana, nell’Oceano Indiano negli ultimi anni. È evidente che la competizione per il primato mondiale, inteso come ruolo di attore egemone, si gioca oggi attraverso il dominio marittimo e, soprattutto, attraverso infrastrutture strategiche utili alla mobilitazione di mezzi navali, sia commerciali che militari. La battaglia tra Washington e Pechino è apertissima, e nessuna delle due potenze sembra disposta a rinunciare né alle proprie ambizioni né alle immense ricchezze che ne derivano.

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