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    The West Bansky

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    Visioni dal terrazzo e visioni del mondo

    Il Walled-Off Hotel è una struttura ricettiva nelle vicinanze di Betlemme unica al mondo. Innanzitutto, per la sua vista… su un muro. Non un ammasso di pietre qualsiasi: è il muro che separa i Territori Palestinesi della Cisgiordania – la West Bank, nella terminologia anglosassone – dalle terre israeliane. L’hotel, a pochi metri dai cecchini di Tel Aviv, è stato creato dall’artista Banksy con l’obiettivo non di far fare una vacanza tranquilla, ma di offrire al turista nel Medio Oriente la prospettiva che il palestinese vive ogni giorno. Visivamente, s’intende. E poi, all’interno, più che un hotel è un piccolo museo della resistenza quotidiana all’occupazione israeliana.

    Banksy ha dedicato diversi lavori alla questione israelo-palestinese, dipingendo sul muro che separa i due Stati. I suoi graffiti sono piccoli capolavori di satira: tra gli altri, c’è il soldato israeliano che chiede il documento ad un asino, la bambina palestinese che fa il checkpoint al soldato sionista, quest’ultimo e un dimostrante palestinese che si danno battaglia con dei cuscini. 

    Accanto alle opere di Banksy ci sono quelle di artisti palestinesi che hanno lasciato la propria impronta sul muro; tra tutti, Handala, il profugo bambino che volge le spalle alla Cisgiordania per guardare, dal cemento della barriera, la sua terra natìa, da cui è stato espulso.

    Vicini ai graffiti-pitture troviamo le frasi, che dal terrazzo del Walled-Off (come suggerirebbe d’altronde già il nome dell’hotel) sono ben leggibili. Ad esempio, «Make hummus not war» e il più esplicito «God will destroy this wall»

    Secondo una leggenda (che probabilmente tale solo è) un palestinese aveva fatto presente a Banksy che aveva cambiato volto al muro. L’artista l’aveva preso per un complimento, ma l’uomo gli aveva risposto secco: «Non vogliamo che sia bello. Noi odiamo questo muro. Tornatene a casa».

    A dirla tutta anche sul lato israeliano ci sono graffiti, ma sono il contrario nella loro simbologia: invece di sottolineare l’occupazione, la evitano. Ecco così paesaggi e sfondi che “coprono” la realtà della separazione, oltre a qualche inevitabile slogan sionista o filopalestinese. Due concezioni del mondo opposte sulla stessa lastra fortificata. 

    Il muro

    Questo muro non è esistito da sempre. Venne costruito vent’anni fa per controllare gli ingressi dalla Cisgiordania in Israele, a seguito di una serie di sanguinosi attentati ad opera di terroristi palestinesi. Il movente perfetto per Israele, che già occupava – illegalmente anche per l’ONU – le Alture del Golan siriane, aveva circondato con un altro muro la Striscia di Gaza e stanziato – a seguito degli Accordi di Oslo – il proprio esercito come amministrazione militare in Cisgiordania, dopo un ventennio (1967-1987) di occupazione come nel Golan. Di fatto, lo Stato palestinese non è mai stato fatto partire: senza esercito e senza un governo stabile, senza una sovranità piena sul suo stesso territorio. E con insediamenti sionisti irregolari ma protetti dalle forze armate israeliane in barba al diritto internazionale.

    Il muro con la Cisgiordania non solo ha inglobato definitivamente Gerusalemme Est (che doveva essere di giurisdizione palestinese) ma ha anche spostato di fatto il confine di alcune centinaia di metri. Ossia, la separazione fisica è stata messa su oltre la separazione ufficiale, quella accettata dall’ONU, fagocitando pezzi di Cisgiordania.

    Per i coloni israeliani che vivono nella West Bank non ci sono problemi; per i loro concittadini verso il mare neppure – anzi, sono diminuiti gli attentati. Per i palestinesi, invece, si è aperta un’agonia supplementare: i checkpoint delle Forze di difesa israeliane creano code, controlli, perquisizioni e blocchi assolutamente arbitrari, usando il permesso della “sicurezza nazionale” per il blocco dei civili, dei commercianti e dei lavoratori. Una sofferenza quotidiana che simboleggia materialmente l’oppressione di uno Stato avanzatissimo militarmente su un territorio che non risponde neppure alla propria sovranità. E quando le IDF arrivano, il corpo di polizia civile della Palestina (unica forza permessa) lascia il passo.

    Per chi vive a Tel Aviv o Jaffa il muro e i checkpoint non sono una questione all’ordine del giorno. Così, essi sono diventati normalità. Dopo il 7 ottobre il Fortino Israele è passato alla tappa successiva, legalizzando gli insediamenti in Cisgiordania e armando i coloni, che così sono passati all’attacco delle comunità palestinesi producendo una nuova Nakba. Spalleggiati dall’esercito e ispirati dal governo, le violenze in Cisgiordania hanno raggiunto l’apice: gli stessi servizi di sicurezza di Tel Aviv, lo Shin Bet, hanno avvertito i vertici dello Stato che i propri concittadini hanno passato il limite, definendoli senza mezzi termini… «terroristi»!

    E se per gli 007 la situazione è diventata insopportabile, immaginiamo per i civili chiusi al di là del muro. Impossibilitati al rientro nelle loro terre natali, da dove furono espulsi nel 1948, ridotti in clausura nel XXI secolo. 

    Il muro, per chi guarda da Gerusalemme, è ormai una normalità, quasi una cosa neutrale, un male necessario che tuttavia non è così cattivo. È stata barattata la vita dei palestinesi con la percezione di sicurezza degli israeliani, e si pretende che sia uno scambio equo.

    Concludiamo con la scritta su un murales: «Se ci laviamo le mani dal conflitto tra il potente e il debole, ci schieriamo con il potente – non restiamo neutrali.»

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