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    Trent’anni fa la strage di Srebrenica: una ferita ancora aperta

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    Quando si parla di crimini contro l’umanità avvenuti nel cuore dell’Europa contemporanea, Srebrenica occupa un posto tragicamente centrale. Quanto accaduto nel piccolo villaggio della Bosnia-Erzegovina è parte integrante delle guerre jugoslave che negli anni Novanta hanno scosso l’Europa. In Bosnia, il conflitto vedeva la contrapposizione delle forze serbo-bosniache, appoggiate dal governo serbo, ai croato-bosniaci e ai musulmani bosniaci. 

    Per tre lunghi anni, il Paese fu terreno di violenze di ogni tipo, stupri, distruzioni, deportazioni e uccisioni di civili. Nel 1993, le Nazioni Unite dichiararono Srebrenica “zona protetta”, sotto la supervisione di un contingente di caschi blu olandesi. Questa dichiarazione avrebbe dovuto garantire la sicurezza della popolazione civile, ma si rivelò inefficace.

    Il massacro

    L’11 luglio 1995, le forze dell’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia, comandate dal generale Ratko Mladić, entrarono a Srebrenica: nell’arco di pochi giorni, senza incontrare alcuna resistenza, uccisero 8372 uomini e ragazzi musulmani bosniaci di età compresa tra i 12 e i 77 anni. Le immagini di Mladić rassicurante sul fatto che non sarebbe accaduto nulla, mentre stava pianificando il massacro, rappresentano uno degli elementi più agghiaccianti della storia contemporanea europea.

    I maschi furono deportati e poi brutalmente uccisi. I loro corpi vennero seppelliti in fosse comuni, molte delle quali furono successivamente riesumate e disperse in altre località per coprire le tracce del genocidio. La freddezza mostrata dalle truppe della Repubblica Serba di Bosnia e la sistematicità con cui venne organizzata l’operazione non lasciano alcun dubbio sul fatto che si trattasse di un piano studiato a tavolino: più di ottomila persone furono uccise nel giro di pochi giorni. Non poteva trattarsi di un incidente o di un eccesso incontrollato: quanto accaduto fu un massacro pensato e attuato.

    L’intervento NATO e gli Accordi di Dayton

    Dopo il massacro di Srebrenica e l’intensificarsi del conflitto in Bosnia-Erzegovina, la comunità internazionale fu costretta a intervenire. Nell’agosto 1995, la NATO lanciò l’operazione Deliberate Force, una campagna di bombardamenti contro le forze serbo-bosniache, con l’obiettivo di fermare le aggressioni contro i civili. Questo intervento militare, unito alla pressione diplomatica, fu determinante per porre fine alla guerra. 

    Grazie all’intervento della NATO, si arrivò alla pace in seguito alla firma degli Accordi di Dayton, nel novembre 1995. L’intesa definì la struttura istituzionale della Bosnia-Erzegovina, suddividendola in due entità principali: la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, a maggioranza croato-musulmana, e la Repubblica Srpska, a maggioranza serba. 

    Gli Accordi di Dayton riuscirono a fermare le ostilità, ma lasciarono irrisolti molti nodi politici e sociali. La struttura istituzionale venutisi a creare è tutt’oggi estremamente complessa e frammentata, con un sistema di governance che spesso blocca decisioni importanti e rallenta il progresso del Paese. Questa situazione, negli anni, ha alimentato tensioni latenti, impedendo così l’inizio di una vera e propria riconciliazione nazionale.

    La reazione internazionale e il riconoscimento come genocidio

    Dopo il massacro, le immagini, i video e le testimonianze dei sopravvissuti portarono alla luce l’orrore di Srebrenica. Il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia (ICTY) fu istituito per giudicare i crimini di guerra commessi durante il conflitto bosniaco. Sia il generale Ratko Mladić che leader politico della Repubblica Serba di Bosnia, Radovan Karadžić, furono processati e condannati per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra.

    Nel 2007, la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia ha dichiarato che il massacro di Srebrenica costituisce un atto di genocidio. Questo riconoscimento ha assunto un significato importante, in quanto implica la consapevolezza giuridica e storica che il massacro non fu un episodio marginale, ma una pianificata distruzione di uno specifico gruppo etnico. 

    La negazione della Serbia 

    Nonostante la posizione della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, la Serbia ha sempre mantenuto una posizione ambigua, evitando di riconoscere pienamente le proprie responsabilità. I leader serbi hanno sempre parlato di Srebrenica come un episodio caratterizzato da “crimini gravi”, evitando l’uso della parola “genocidio”. Questo atteggiamento ha contribuito a mantenere aperte ferite profonde nei rapporti tra le comunità etniche balcaniche e la Serbia.

    A maggio 2024, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha votato una risoluzione con cui si proclama l’11 luglio Giornata Internazionale di Ricordo del Genocidio di Srebrenica. La risoluzione ha ottenuto il sostegno di molti Paesi, ma ha incontrato la ferma opposizione della Serbia e di parte della leadership bosniaca serba, che ancora oggi si ostina a non riconoscere ufficialmente il genocidio. 

    Nonostante i svariati cambiamenti politici avvenuti dopo la caduta del regime di Milosevic, Belgrado non ha mai fatto i conti con il proprio passato. La mancata presa di responsabilità e la continua negazione pesano molto sia sulle relazioni internazionali, che sulla capacità di affrontare tematiche storiche all’interno della regione balcanica per avviare una riconciliazione.

    L’educazione e la cultura per ricordare

    Sono passati trent’anni dal massacro di Srebrenica. Ancora oggi, però, una delle sfide più importanti per la Bosnia-Erzegovina e per l’intera regione balcanica è trasmettere alle nuove generazioni la consapevolezza storica di quanto accaduto.

    La difficoltà di trovare coesione rispetto a tale tematica è dovuta alla mancata omogeneità dell’educazione impartita, una problematica connessa alle divisioni etniche. In molte scuole, soprattutto nelle aree a maggioranza serba, il genocidio di Srebrenica viene raccontato in modo parziale, se non addirittura negato. Questo fenomeno vede studenti bosgnacchi – musulmani – e serbi studiare in ambienti separati con programmi scolastici diversi, consolidando così le divisioni esistenti. Ricordare Srebrenica è fondamentale, perché soltanto tramite il ricordo si può investire in un’educazione che riesca a creare una memoria collettiva condivisa, basata sui fatti storici e sul rispetto delle vittime.

    Srebrenica: ricordare il passato per un futuro migliore

    Il massacro avvenuto a Srebrenica non è solo un capitolo oscuro del passato balcanico: rappresenta una pagina storica legata alle fragilità del tessuto civile della società. Le dinamiche che portarono al genocidio – odio etnico, propaganda e negazione dell’altro – possono riaffiorare ovunque, in qualsiasi momento, in assenza di una strutturale e sistematica opposizione tale da coinvolgere la memoria, l’educazione e la giustizia.

    Srebrenica non è solo un dramma del passato, ma è anche un richiamo alla responsabilità attuale. Senza un serio investimento nell’educazione e un ripensamento degli assetti politici nati da Dayton, il rischio è che le vecchie tensioni possano riemergere. Riconoscendo il dolore e la verità storica, si può costruire un futuro di pace autentica in Bosnia-Erzegovina.

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