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    Trump, il finto pacifista

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    Nell’attuale contesto geopolitico, le ultime elezioni americane hanno insistito molto sulla visione di politica estera dei candidati alle presidenziali. Per quanto concerne la parte repubblicana, si tratta di tema cruciale, ben cavalcato dai relativi affini, che si sono mostrati sin da subito capaci di associare il nome di Trump alla parola “pacifismo”. Anche in Italia il neo Presidente è stato sin da subito descritto da alcuni come un “pacifista” illuminato, capace, come lui stesso ha sempre sostenuto, di far cessare immediatamente tutti i conflitti in giro per il mondo.

    Il primo mandato: tra droni e confusione

    Evidentemente, però, lo “spirito di unità” di cui parlava Trump durante il discorso d’insediamento fu largamente messo da parte durante il suo primo mandato, quando provò, neanche troppo velatamente, a peggiorare i rapporti con l’Iran. D’altronde, tra i suoi Consiglieri per la Sicurezza va annoverato John Bolton, che già anni prima fece pressioni su Tel Aviv affinché si portasse avanti un attacco preventivo contro l’Iran. Il suo fu un mandato caratterizzato da strategie imprevedibili e aggressive, a partire dalla fuoriuscita degli USA dall’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA), la conseguente reintroduzione delle sanzioni secondarie e l’uccisione del generale Qassem Soleimani. Inutile a dirsi: l’unico risultato ottenuto fu quello di contribuire al radicamento e alla crescita delle forze iraniane maggiormente conservatrici e ostili a Washington.

    A discapito di quanto si voglia far credere, la sua Presidenza fu scandita da un elevato numero di attacchi ad altri Paesi: basti considerare l’utilizzo di missili in Siria nel 2017 e nel 2018 oppure l’uso del più potente ordigno non nucleare al mondo sganciato sull’Afghanistan. Al netto delle motivazioni che portarono a queste decisioni, di certo c’è il mancato mantenimento della promessa, fatta anche nel 2016, di un disimpegno dalle guerre in Medio Oriente. Malgrado tali premesse,le operazioni invece continuarono; nello specifico si ricorse ad un uso massiccio di droni e venne contestualmente meno l’ordine esecutivo che richiedeva ai funzionari dell’intelligence statunitense di pubblicare il numero di civili uccisi in attacchi con questa tecnologia. Nei primi due anni della prima presidenza Trump si verificarono 2243 attacchi con droni, rispetto ai 1878 degli otto anni di mandato Obama.

    Nell’arco temporale a matrice repubblicana, la gestione della politica estera è stata spesso la diretta conseguenza di una generale confusione, la stessa che in breve tempo ha mostrato non poche divergenze rispetto ai propositi iniziali. In tal senso, l’esempio delle relazioni intraprese con la Russia, che in un primo momento si mostrava così gioiosa da dirsi contenta per la prima elezione del miliardario (senza considerare il Russiagate), sono un esempio lampante delle divergenti azioni intraprese.

    La questione ucraina

    Se è vero che, in accordo con parte dei trumpiani, Biden ha enormi responsabilità nel nascere, nonché sul degenerare del conflitto Ucraina-Russia, non si può dire diversamente dal rieletto Presidente. Con un importante cambio di rotta rispetto agli anni precedenti, nel 2017 Trump iniziò a vendere armi letali all’Ucraina; in aggiunta durante il suo mandato si intensificarono le attività militari vicino al territorio russo. A questo proposito, ricordiamo le esercitazioni NATO del 2020 in Estonia a soli 110 km dalla Russia; allo stesso modo è lecito pensare che i russi non abbiano preso bene il ritiro americano dal trattato del 1987 sulle armi nucleari a raggio intermedio.

    Quando il Presidente americano parla delle sue capacità di ottenere la pace tra Russia e Ucraina (a cui ha già sospeso gli aiuti umanitari per tre mesi) bisognerebbe ricordarsi che il suo modo di agire rientra tra i motivi che hanno portato allo scoppio della guerra. Bisognerebbe poi evidenziare, vista la mancanza di volontà di coinvolgere Ucraina e Unione europea nei negoziati, che intercorre una sostanziale differenza tra il raggiungimento della pace e la cessione di un Paese ad un altro.

    Trump ha comunicato di aver avuto una telefonata “lunga e molto produttiva” con Vladimir Putin durante la quale i due hanno “convenuto” di voler “fermare le milioni di vittime che la guerra tra Russia e Ucraina sta causando”. Il cuore del problema resta, però, come giungere ad un accordo valido, se estromettere uno dei Paesi coinvolti – l’Ucraina – e se l’Unione europea possa compromettere l’esito dei negoziati o la tenuta degli stessi.

    Tra le poche informazioni disponibili, sappiamo solo che Zelensky sarebbe dovuto essere “informato”, quasi come a dire che per il momento gli ucraini non avranno ruolo centrale al (ri)nascente tavolo tra USA e Russia.

    I nuovi pugni di acciaio

    L’inizio del secondo mandato non fa, però, certo ben sperare rispetto all’accostamento del nome “Trump” alla parola “pacifismo” di cui si parlava ad inizio articolo. In pochissimi giorni il Presidente americano ha avuto il merito di indispettire i messicani decidendo unilateralmente di cambiare il nome del Golfo del Messico in Golfo d’America, oltre che infastidire l’alleato Mulino, Presidente di Panama, perché il dipartimento di Stato americano ha diffuso su X la notizia di un accordo mai esistito. Si continua quindi a mostrare i pugni di ferro tramite i social network, i cui proprietari miliardari sembrano essersi chinati alla volontà trumpiana, invece che gestire seriamente la politica estera. Ed è così che l’ormai dimissionario Presidente canadese ed i danesi apprendono tramite X e Truth della “proposta”, più volte ripetuta in questi giorni, di annettere il Canada e la Groenlandia agli Stati Uniti d’America.

    Attacchi aggressivi quelli di Trump che lasciano, però, tempo anche per proporre un nuovo esodo forzato dei palestinesi da Gaza: dati gli effetti del conflitto, l’idea del Presidente è quella di dislocare forzatamente due milioni di persone in Egitto e Giordania (che già si sono dette contrarie) facendo così in modo che gli Stati Uniti prendano “il controllo della Striscia di Gaza” per poter costruire “la Costa Azzurra del Medio Oriente”. Un’idea, quest’ultima, subito piaciuta a Netanyahu, a cui Trump aveva già fatto il regalo di riconoscere, a fine 2017, Gerusalemme come capitale di Israele.

    Così, mentre gli americani sanzionavano la Corte penale internazionale (con il solo assenso dell’Italia), il Tycoon ha dimostrato di non avere a cura né il diritto internazionale, né le sorti di un popolo, né la stabilità di una regione a prevalenza araba. Forse per capire il perché del suo piano basterebbe guardare poco oltre per accorgersi di un immobiliarista che negli ultimi 20 anni ha sempre provato a fare affari in Israele (costruendo una Trump Tower, un Golf Club e vendendo energy drinks), oltre che quelli di suo genero, Jared Kushner, che lo scorso mese ha raddoppiato le partecipazioni in una società finanziaria che ha legami espliciti con insediamenti che traggono profitto dall’occupazione israeliana in Cisgiordania e nelle Alture del Golan.

    Nell’era in cui non esiste più una netta separazione tra potere politico e potere economico, un miliardario ha deciso di dirsi contro la soluzione “due popoli due Stati” per perseguire interessi personali.

    Nessuna sorpresa

    In queste settimane il tycoon ha dimostrato di voler continuare a portare avanti una gestione della politica estera aggressiva ed isolazionista. I buoni propositi delle destre europee, tra cui quelle del Governo italiano, rispetto alla tenuta dei rapporti con l’America trumpiana non possono essere l’unica strategia perseguita. Il rischio è quello di affidarsi ad affaristi (prima ancora che politici) che lanciano movimenti al grido di “Make Europe Great Again” per poi, subito dopo, estromettere i Paesi europei dai negoziati di pace; tutto questo senza considerare il protezionismo economico.

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